Nutrizione Clinica in team: assistenza, opportunità e responsabilità

Chiara Ghiandoni

Socio SIFO Regione Liguria

Parole chiave: Collaborazione, Multidisciplinarietà, Qualità, Integrazione, Responsabilità.

Sabato 29 ottobre 2022, in occasione del XLIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende Sanitarie (SIFO) tenutosi a Bologna, si è svolta la sessione dal titolo: “Nutrizione Clinica in team: assistenza, opportunità e responsabilità”.

Il tema cardine del dibattito, introdotto dalla dott.ssa Falcone, moderatrice dell’evento, è stato rappresentato dalla centralità e dall’importanza dell’approccio multidisciplinare nel contesto assistenziale ospedaliero. La necessità di predisporre un’équipe composta da diverse figure professionali che collaborino e integrino le proprie competenze specialistiche, al fine di migliorare la qualità delle cure del paziente, è ormai un concetto consolidato da diversi anni. In questo contesto, la figura del farmacista ospedaliero diventa sempre più rilevante in quanto occupa un ruolo centrale di mediazione tra diversi profili professionali.

L’obiettivo della sessione, ha chiarito successivamente la dott.ssa Pompilio, è stato quello di offrire spunti di riflessione sulla base di esempi pratici di collaborazione tra medico e farmacista, che si sono sviluppati in due diversi setting assistenziali italiani. Questa strategia di lavoro collettivo si è rivelata vincente nell’ambito della Nutrizione Clinica.

Il primo relatore, il dott. Severini, responsabile della Struttura Operativa Dipartimentale dei Disturbi dell’Alimentazione dell’Azienda Ospedaliera Universitaria delle Marche, si è focalizzato sull’importanza di una rete multidisciplinare nel contesto dei disturbi alimentari. Il presidio Salesi, struttura presso la quale opera lo psichiatra, è stata aperta il primo gennaio 2022 e attualmente rappresenta l’unica struttura ospedaliera di riferimento della Regione Marche. Il presidio offre un servizio dedicato con tre posti letto e accoglie ragazzi di età compresa tra 0 e 18 anni con disturbi alimentari molto spesso in comorbilità con patologia psichiatrica. Le patologie più frequentemente trattate al Salesi sono rappresentate dall’anoressia nervosa e dalla bulimia nervosa in età evolutiva. La prima è caratterizzata da una restrizione alimentare con progressivo dimagrimento, accompagnata da una paura patologica dell’obesità e da una percezione distorta dell’immagine corporea. L’esordio sopraggiunge solitamente durante l’adolescenza e colpisce prevalentemente il sesso femminile. L’anoressia nervosa si distingue in due forme: quella di tipo restrittivo, in cui il soggetto limita l’assunzione di cibo e quella in cui il soggetto si sottopone ad abbuffate seguite da condotte di eliminazione (vomito e/o utilizzo di lassativi). La bulimia nervosa è un grave disturbo dell’alimentazione sempre caratterizzato da frequenti abbuffate seguite da condotte di compensazione inappropriate (vomito autoindotto, lassativi, diuretici) ma si distingue dall’anoressia in quanto i soggetti che ne soffrono sono normopeso o in sovrappeso; per tale motivo viene definita patologia silente. Le condotte di eliminazione possono essere molto pericolose e provocare varie complicanze, soprattutto a livello cardiaco, a causa di squilibri elettrolitici. Queste condizioni sono spesso accompagnate da disturbi psichiatrici sottostanti tra cui disturbi depressivi, disturbi bipolari e disturbi di personalità ad alta emotività espressa. Nel periodo post lock-down, ha affermato il dott. Severini, è emerso un incremento dei disturbi alimentari e, allo stesso tempo, un cambio in termini di gravità. Dopo la pandemia si sono infatti registrati anche casi di ragazzini con disturbi alimentari ed esordi psicotici. Appare dunque evidente quanto possa fare la differenza la predisposizione di un team multiprofessionale composto da persone qualificate, dallo psichiatra allo psicologo-psicoterapeuta e dal nutrizionista al cardiologo, per una presa in carico globale del paziente. In questo contesto, il farmacista è chiamato a svolgere un ruolo importante nell’affiancare il medico prescrittore e nell’indirizzarlo verso le scelte farmacologiche più opportune, in accordo con i criteri di appropriatezza prescrittiva.

Altro fronte, che vede un coinvolgimento attivo del farmacista, è rappresentato dalla preparazione galenica di nutrizioni parenterali personalizzate. La gestione del paziente in regime di ricovero ospedaliero, infatti, prevede tra gli interventi terapeutici in una prima fase proprio la terapia nutrizionale, prediligendo un approccio internistico (l’alimentazione con nutrizione parenterale periferica personalizzata riguarda circa il 60% delle casistiche). Nella seconda fase è prevista una terapia psico-farmacologica tramite l’utilizzo di farmaci come ad esempio: ansiolitici, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), antipsicotici e, in minima parte, antiepilettici. Il primo obiettivo del trattamento nutrizionale è quello di evitare che il paziente continui a perdere peso (sindrome da underfeeding) e allo stesso tempo evitare la sindrome da refeeding (sindrome da rialimentazione). Quest’ultima rappresenta infatti la complicazione più grave, che può verificarsi in pazienti molto malnutriti in seguito ad una nutrizione artificiale “aggressiva”. Nella fase di rialimentazione, la nuova disponibilità di glucosio induce la produzione di insulina che determina il passaggio di fosforo e acqua all’interno delle cellule e stimola la sintesi proteica: questo comporta un aumento delle richieste intracellulari di potassio, magnesio e vitamine, provocando squilibri elettrolitici. Il glucosio, inoltre, interferisce con l’escrezione renale di sodio e acqua aggravando in questo modo la ritenzione idrica e predisponendo il soggetto al rischio di edemi periferici e scompenso cardiaco. Nella fase di riabilitazione nutrizionale vengono seguite le linee guida dell’American Psychiatric Association (APA). «Il fabbisogno calorico giornaliero che inizialmente si cerca di raggiungere», ha affermato il dott. Severini, «si aggira intorno alle 400 kcal/die, successivamente gli introiti vengono aumentati gradualmente fino a raggiungere 1500/2000 kcal/die alla dimissione del paziente».

«A questo punto sorge spontanea una domanda», conclude il dott. Severini, «che reparto ci definireste? Internistico? Psichiatrico? Dietologico? In realtà siamo un po’ di tutto, perché uniamo figure professionali diverse, con competenze e responsabilità ben distinte, ma con un obiettivo comune: assistere il paziente a 360 gradi».

La Farmacia Ospedaliera, come ha precisato la dott.ssa Andresciani, farmacista della struttura operativa semplice di Farmacia Pediatrica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria delle Marche, collabora con il clinico per garantire la scelta dei prodotti più indicati per ciascun paziente. Preparare una nutrizione parenterale personalizzata significa calibrare le sacche nutrizionali con il giusto apporto di calorie e nutrienti in modo da soddisfare le singolari esigenze cliniche. La Farmacia, inoltre, sostiene e accompagna le scelte del clinico riguardanti i prodotti più adeguati, utilizzabili per la nutrizione enterale. L’alimentazione tramite nutrizione enterale è la tecnica di prima scelta quando l’apparato gastrointestinale risulta funzionante, in quanto offre diversi vantaggi: mantiene attive le funzioni fisiologiche, è gravata da minori complicanze (è più sicura dal punto di vista asettico) e risulta meno costosa rispetto alla tecnica di nutrizione parenterale. I supporti che vengono somministrati sono alimenti destinati a fini medici speciali: concedibili in ospedale, in Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) o in terapia domiciliare. «Nel 2022», ha affermato la dott.ssa Ambresciani, «è stata effettuata una revisione dei LEA in base alla quale si prevede la possibilità di somministrare questi prodotti, prescritti dal centro ospedaliero, anche al proprio domicilio in regime di continuità terapeutica. Tale revisione però, non essendo stata pubblicata in Gazzetta, non è ancora ufficiale e pertanto difficilmente realizzabile». In commercio esistono diverse tipologie di formulazioni: prodotti normo-calorici (1 kcal/ml), ipercalorici (1,5 kcal/ml) e ipercalorici arricchiti con fibre (2 kcal/ml). I prodotti specifici per pazienti diabetici presentano un basso indice glicemico, sono normo-calorici e contengono fibre solubili e insolubili. Nel caso di formule per nutrizione enterale vengono usati prodotti ipercalorici da somministrare tramite sondino naso-gastrico. La nutrizione parenterale è invece indicata quando lo stato di malnutrizione è severo e quando il tentativo di nutrizione, sia di tipo orale che di tipo enterale, risulta fallimentare. I vantaggi della nutrizione parenterale sono molteplici: innanzitutto è possibile realizzare una personalizzazione della terapia nutrizionale con composizioni elettrolitiche specifiche per ciascun paziente; inoltre la nutrizione parenterale presenta una compliance maggiore da parte del paziente, in quanto comporta un minore coinvolgimento psicologico. «Nel 2022 sono state ricoverate 14 pazienti di sesso femminile, con indice di massa corporea inferiore a 14,5» ha affermato la dott.ssa Andresciani. «Per 6 di queste è stata studiata e realizzata, in collaborazione con il clinico, una sacca personalizzata a doppio comparto in grado di garantire un maggiore periodo di validità. Questa sacca, che può essere conservata in reparto per l’utilizzo in situazioni di emergenza, è destinata a una nutrizione parenterale periferica totale e presenta concentrazioni che rispettano i valori di osmolarità. Il fabbisogno nutrizionale fornito è pari a 15 kcal/kg e il rapporto lipidi/glucidi è pari a 30/70 (con possibilità di modificazioni in relazione ai valori di transaminasi epatiche). La sacca contiene basse concentrazioni di vitamine idrosolubili e liposolubili, pertanto è prevista solitamente l’integrazione per os della vitamina B1 al fine di evitare la sindrome da rialimentazione». La dott.ssa Andresciani ha poi concluso presentando uno studio, condotto in collaborazione con il reparto dei disturbi dell’alimentazione, volto a valutare l’impatto della pandemia da COVID-19 sui pazienti con disturbi del comportamento alimentare. In questo studio sono stati presi in esame due gruppi di pazienti: il primo, comprendente pazienti ricoverati da gennaio 2019 a marzo 2020, il secondo, comprendente pazienti ricoverati da aprile 2020 a giugno 2021. Nel gruppo “post-COVID-19” è stato evidenziato un incremento dei ricoveri con un aumento importante delle terapie nutrizionali di tipo enterale e parenterale e, allo stesso tempo, un aumento della somministrazione di farmaci psichiatrici.

A questo punto la parola è stata passata alla dott.ssa Luppino, medico dirigente dell’UOC di gastroenterologia dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza e alla dott.ssa Elisoli, dirigente farmacista. La loro presentazione è stata incentrata sulla personalizzazione della terapia nutrizionale nella fenilchetoenuria, una rara malattia autosomica recessiva caratterizzata da un’alterazione del gene della Phenylalanine Hydroxylase (PAH) codificante per l’enzima fenilalanina idrossilasi. L’enzima fenilalanina idrossilasi catalizza, grazie all’attività del cofattore tetraidrobiopterina (BH4), la trasformazione dell’amminoacido essenziale fenilalanina in tirosina pertanto, quando non funzionante, crea un pericoloso accumulo di fenilalanina nel sangue e in alcuni tessuti del corpo. La conseguente carenza di tirosina determina una riduzione della produzione di molecole da essa derivate, come i neurotrasmettitori adrenalina, noradrenalina, dopamina e il precursore della melanina, la DOPA. In alcuni casi, infatti, la fenilchetoenuria può essere caratterizzata da depigmentazione cutanea, proprio a causa di quantità insufficienti di DOPA e quindi di melanina. A livello cerebrale, l’accumulo di fenilalanina può provocare disabilità intellettive e alterazioni morfologiche in quanto compromette il processo di mielinizzazione e compete con il trasportatore di alcuni amminoacidi, sia aromatici che a catena ramificata. In Italia, dal 1992 è stato reso gratuito e obbligatorio lo screening neonatale per permettere la diagnosi precoce della fenilchetoenuria e il tempestivo trattamento. Questo consiste, sostanzialmente, nella restrizione dietetica di fenilalanina, dei cui livelli plasmatici è necessario un frequente monitoraggio. I limiti consigliati, fino ai 12 anni, sono tra 120 e 360 μmol/L, oltre i 12 anni non devono superare 600 μmol/L. Una dieta sbilanciata a favore di carboidrati e lipidi aumenta il rischio di obesità e patologie cardiovascolari. Con meccanismi non ancora del tutto chiari, tra i pazienti affetti da fenilchetoenuria aumenta anche il rischio di comorbilità con patologie gastrointestinali (esofagiti, gastriti, disordini della motilità esofagea). La dieta prevede il consumo di alimenti a basso contenuto proteico, supplementi di oligoelementi, supplementi di vitamine (es., vitamina D, vitamina B12) e miscele di amminoacidi essenziali privi di fenilalanina. La terapia farmacologica della fenilchetoenuria prevede due possibili trattamenti: l’utilizzo di sapropterina, un analogo sintetico del cofattore BH4, nei pazienti con la forma classica di fenilchetoenuria BH4 responsivi (20% della popolazione affetta) e l’utilizzo di pegvaliase, medicinale contenente la forma pegilata di fenilalanina ammoniaca liasi, un enzima in grado di scindere la fenilalanina e bloccarne l’accumulo.

La dott.ssa Luppino ha descritto il caso clinico di una giovane paziente, affetta da fenilchetoenuria sconosciuta alla nascita, ricoverata in urgenza presso la sua unità operativa a causa di un’esofagite severa (grado D secondo classificazione Los Angeles) con erosioni mucose, ulcere e una stenosi a livello cardiale. «La complessità del caso», ha spiegato la dott.ssa Luppino, «ha reso necessario e indispensabile il confronto clinico-farmacista per la ricerca della soluzione migliore da poter applicare. L’unica strada praticabile è stata rappresentata dalla personalizzazione della terapia nutrizionale parenterale».

«Dopo un’approfondita ricerca tra gli studi in letteratura», ha affermato la dott.ssa Elisoli, «abbiamo scoperto che la massima dose giornaliera tollerata di fenilalanina era pari a 10 mg/kg. A questo punto, valutando gli esami ematochimici della paziente, sono stati scelti i quantitativi più adeguati di elettroliti e vitamine da aggiungere alla sacca e, giorno dopo giorno, sono state effettuate diverse modifiche per soddisfare le esigenze cliniche». La dott.ssa Elisoli ha poi concluso il suo intervento affermando che questa esperienza ha chiaramente dimostrato quanto sia importante il confronto multidisciplinare e quanto sia funzionale il condividere e implementare le conoscenze.

A concludere la sessione è stata la dott.ssa Patti, specializzanda in Farmacia Ospedaliera presso l’Università di Milano, che ha condotto uno studio, in collaborazione con ASST Sette laghi di Varese, sulla stabilità delle sacche per nutrizione parenterale neonatale contenenti ibuprofene per il trattamento del dotto arterioso pervio. Il dotto arterioso è una connessione tra arteria polmonare e aorta che consente la circolazione fetale. Al momento della nascita, l’aumento della pressione parziale arteriosa di ossigeno nel sangue e la riduzione della concentrazione di prostaglandine favoriscono il processo di chiusura del dotto arterioso, ma nel 37% dei nati prematuri questo processo fisiologico non avviene. Clinicamente, il trattamento farmacologico del dotto arterioso pervio prevede la somministrazione endovenosa di ibuprofene per tre giorni. Da qui l’idea di conoscere e verificare la stabilità chimico-fisica e microbiologica di una formulazione standard per la nutrizione parenterale contenente ibuprofene. Lo studio ha previsto l’allestimento di due tipologie di sacche, quelle destinate a bambini nati pretermine e quelle destinate a bambini nati a termine. Le sacche sono poi state sottoposte a condizioni fisiche diverse (temperatura ed esposizione alla luce). Presso i laboratori dell’Università di Milano è stata determinata la stabilità chimica dell’ibuprofene mediante HPLC e sono stati analizzati diversi parametri: pH, osmolarità, granulometria e potenziale zeta. «I risultati ottenuti», conclude la dott.ssa Patti, «dimostrano come il principale fattore responsabile dell’instabilità sia rappresentato dall’esposizione alla luce. Le sacche contenenti ibuprofene devono pertanto essere conservate al riparo dalla luce fino a un massimo di quattro giorni».

La sessione si è quindi conclusa con ringraziamenti e complimenti per i lavori svolti e presentati.

Take home message

Nel contesto assistenziale ospedaliero, il Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA) è uno strumento di gestione clinica che coinvolge diverse figure professionali. Il PDTA può essere paragonato a uno schema di gioco, al cui interno ogni giocatore conosce perfettamente il suo ruolo e le sue responsabilità. Lo scopo finale è vincere la partita.