Paracetamolo, FANS, bifosfonati, denosumab, teriparatide ed oppioidi ad integrare la terapia fisica ed i corsetti nel trattamento delle fratture vertebrali tipo Genant dell’anziano osteoporotico: review narrativa della farmacopea ospedaliera a supporto del riabilitatore

Luigi Di Lorenzo,1 Clementina Spiaggia,2 Enrico Buonfino,2 Michelina Barbieri,3

1Consultant of Department of Physical Medicine & Rehabilitation, The View Hospital, Doha (Qatar)
2Fisioterapista, Corso Laurea in Fisioterapia, Università di Napoli, Polo di BN; AO SAN Pio, Benevento
3Dirigente Farmacista UO Farmacia AO San Pio Benevento

INTRODUZIONE

Una frattura, o “crollo”, vertebrale osteoporotica si verifica quando il peso del corpo sovrastante la sede coinvolta supera la capacità dell’osso di sostenere il carico. Nell’osteoporosi grave solitamente il trauma potrebbe esserci a seguito di un’abituale azione, come fare uno starnuto o sollevare un oggetto.1 Nell’osteoporosi lieve invece il trauma deve essere più importante, generalmente a seguito di cadute o sollevamento di oggetti pesanti. Il 30% dei crolli osteopenici si verifica quando il paziente è a letto. I sintomi principali sono: comparsa di dolore al rachide, aumento del dolore in posizione ortostatica e diminuzione del dolore in posizione supina, ridotta mobilità del rachide, deformità.2 Le complicanze del crollo sono la riduzione dell’altezza, deformità con ipercifosi, stipsi, occlusione intestinale, inappetenza, difficoltà respiratorie e difficoltà nei movimenti e nella deambulazione.

Le fratture vertebrali di natura osteoporotica possono interessare l’intero rachide a causa della complessa morfologia della colonna, dell’importanza strutturale che riveste ogni singola parte. Il riabilitatore è quindi solito consigliare da subito l’utilizzo di corsetti ortopedici e poi un’adeguata terapia del dolore. L’osteoporosi infatti necessita, oltre che di un intervento nutrizionale e farmacologico, anche di esercizi terapeutici e di trattamento ortesico.

L’UTILIZZO DI TUTORI E DISPOSITIVI MEDICI

Di fronte ad un paziente con peggioramento della malattia ed eventuali fratture vertebrali, aumenta purtroppo anche il dolore esacerbato dalla mobilizzazione attiva del rachide, per cui si richiede una precoce stabilizzazione appunto mediante ortesi spinale su misura.

L’utilizzo di tutori non trova invece giustificazione in un trattamento preventivo delle fratture. Un uso prolungato dei corsetti può determinare, infatti, ipotrofia dei muscoli paravertebrali e diminuzione di afferenze propriocettive muscolari e articolari, fondamentali nel mantenimento di un corretto assetto posturale. In caso di frattura vertebrale, intesa sia come frattura delle limitanti vertebrali superiore e inferiore sia come crollo vero e proprio, i corsetti consentono, nelle lesioni acute, uno scarico dei segmenti vertebrali fratturati durante le fasi precoci della verticalizzazione del paziente proteggendo la colonna da ulteriori insulti meccanici.3 Nelle fasi croniche della riabilitazione della colonna osteoporotica con esiti di crolli, il corretto utilizzo di un corsetto può aiutare a correggere o contrastare eventuali ulteriori deformità rachidee.

I dispositivi medici che vengono usati nel trattamento delle fratture vertebrali sono numerosi e dovrebbero, seppur limitatamente, essere già fornitura di un reparto traumatologico (approvvigionamento tramite la farmacia ospedaliera) e possono essere scelti in base alla frattura e al livello di quest’ultima.

I corsetti si distinguono in ortesi toraco-lombari, lombo-sacrali e toraco-lombosacrali. Tra i più utilizzati in caso di osteoporosi vi è un body con reclinatore anatomico che può essere modellato per deficit della muscolatura della colonna. Agisce da L5 a C7 ed esercita un’azione stabilizzante per il sostegno della colonna vertebrale nei casi di osteoporosi ad uno stadio inziale. Il body è leggero e con elementi funzionali integrati riesce ad effettuare un lavoro di allungamento della colonna vertebrale tale da spingere costantemente il corpo, a livello inconscio, a correggere autonomamente la propria postura. Il più noto è però senza dubbio il busto rigido C35. Il busto rigido C35 è stato il primo corsetto per iperestensione, offerto sul mercato mondiale dell’ortopedia. Da sempre è il migliore busto ed il più utilizzato nel trattamento di fratture della colonna vertebrale, grazie alle seguenti caratteristiche: telaio regolabile con struttura in titanio e alluminio, appoggi sternali, pelvici e lombari imbottiti con gommapiuma e ricoperti in vinilpelle, placca sternale con snodo regolabile, banda pelvica di scarico al bacino fissa, placca dorsale mobile con possibilità di spostamento in direzione dorso-lombare e fascia di chiusura regolabile in cotone. Esso ha inoltre una cornice in lega leggera che avvolge anteriormente il tronco del paziente e da una placca posteriore posizionata a livello lombare. Viene chiamato anche corsetto a tre punti d’appoggio poiché le spinte applicate coinvolgono tre distretti. Anteriormente si ha la spinta sullo sterno e sul pube e posteriormente il sostegno è a livello lombare. In questo modo, quest’ortesi mantiene il rachide in posizione di iper-estensione relativa e contemporaneamente permette un parziale scarico del peso della parte superiore del corpo, trasferendolo dalla colonna lombare al bacino.4 Le sue indicazioni sono il trattamento di fratture traumatiche o patologiche delle vertebre dorsali basse e lombari; il trattamento di patologie infiammatorie vertebrali specifiche o aspecifiche, la stabilizzazione del rachide in presenza di sintomatologie traumatiche o patologiche conseguenti a osteoporosi, osteolisi e osteomalacia ed i crolli vertebrali.

Vi sono infine tutori in grado di sfruttare il principio del biofeedback, stimolando lo sviluppo della muscolatura del tronco, migliorando la postura e riducendo il dolore. Essi sono caratterizzati da una placca vertebrale posteriore in alluminio che viene stabilizzata anteriormente e inferiormente da una fascia che passa davanti all’addome e superiormente da due tiranti che permettono di indossare questo corsetto come uno zaino. Questo tipo di corsetto non determina uno scarico del peso a livello del bacino ma la posizione di iper-estensione, che viene mantenuta dalla barra metallica, permette una migliore distribuzione delle forze tra la componente anteriore della colonna, costituita dai corpi vertebrali e dai dischi intervertebrali, e quella posteriore, data dalle strutture articolari e legamentose.4,5

PREVENZIONE E TERAPIA FARMACOLOGICA

L’osteoporosi è una malattia sistemica dell’apparato scheletrico che a lungo andare comporta il deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo e consegue un aumento della fragilità ossea che può portare a frequenti fratture o crolli vertebrali.6 L’incidenza dell’osteoporosi è sempre in crescita negli ultimi anni e perciò l’importanza della prevenzione, della diagnosi precoce e di un appropriato trattamento è fondamentale. Si stima che in Italia l’osteoporosi colpisca circa 5 milioni di persone, di cui l’80% sono donne in post-menopausa.

Le fratture da fragilità per osteoporosi hanno notevoli conseguenze, sia sul paziente che sul carico economico con elevati costi sia sanitari sia sociali. Il crollo vertebrale è una delle più frequenti complicanze dell’osteoporosi, in cui si verifica la frattura di un corpo vertebrale. Il sintomo principale del crollo vertebrale è il dolore che può protrarsi a lungo e per questo si deve agire quanto prima possibile.7 Nel protocollo condiviso degenza/farmacia ospedaliera ci si pone sempre l’obiettivo di verificare attraverso un approccio multidisciplinare perseguendo una diminuzione significativa del dolore nelle prime quattro settimane.

I protocolli standard in ambito riabilitativo post-acuto prevedono l’utilizzo di FANS e oppioidi, terapia fisica e possibilmente di esercizi assistiti. Per tale specifico obiettivo, incuriositi circa l’utilizzo di oppioidi anche nei pazienti trattati con diatermia e terapia fisica di ultima generazione, abbiamo infine retrospettivamente controllato tutti i pazienti presi in carico negli anni 2021 e 2022 per fratture vertebrali non mieliche dolorose e recenti. In questa casistica sono stati seguiti pazienti ricoverati in regime di day hospital riabilitativo in esito a crolli vertebrali osteoporotici con lo scopo di perfezionare i protocolli, integrare l’approccio polifarmacologico con il supporto della farmacia ospedaliera e verificare se un’idonea politerapia farmacologica guidata dal farmacista ospedaliero (FANS, adiuvanti analgesici ed oppioidi) associata al protocollo riabilitativo migliorasse l’efficacia dell’intervento fisioterapico e la gestione del dolore nelle prime 4 settimane (dolore acuto).

I dati relativi agli score studiati (riduzione del dolore mediante somministrazione settimanale della scala analogica del dolore - VAS), oggetto di un trial aziendale retrospettivo, ci hanno permesso di verificare una associazione tra gli effetti di un trattamento terapeutico standard (protocollo standard su richiamato) e l’aggiunta della somministrazione di un’adeguata e “tailorata” terapia farmacologica plurimolecolare. L’Odds Ratio, strumento statistico che studia il rapporto tra la frequenza con la quale un evento si verifica in un gruppo di pazienti e la frequenza con la quale lo stesso evento si verifica in un gruppo di pazienti di controllo, conferma globalmente la validità di un approccio integrato.

Riguardo la terapia farmacologica, per questo articolo è stata infine sinteticamente effettuata una revisione narrativa dell’approccio globale alle fratture osteoporotiche, riportando la totalità delle evidenze dell’approccio globale farmacologico e non, che solitamente viene proposto in ambito traumatologico riabilitativo ospedaliero acuto. Nei limiti delle finalità del presente articolo, abbiamo le fratture femorali, vertebrali e del polso che rappresentano le fratture osteoporotiche più tipiche. Tuttavia, numerosi studi hanno dimostrato che nei pazienti con massa ossea ridotta tutti i tipi di fratture risultano più frequenti. Inoltre, indipendentemente dal segmento scheletrico interessato, una frattura prevalente aumenta del 50-100% la probabilità di sostenere un’altra frattura in una sede differente. Nella popolazione statunitense è stato stimato che il 40% delle donne e il 13% degli uomini di 50 anni nel corso della loro vita residua andrà incontro ad almeno una frattura da fragilità.

La prevalenza delle fratture vertebrali aumenta costantemente con l’età. La maggior parte di queste non è collegata a gravi traumi e solo una su tre viene diagnosticata clinicamente. Di solito le fratture vertebrali sono associate a sintomi clinici come mal di schiena, cambiamento della postura, perdita di altezza, compromissione funzionale, disabilità e qualità della vita diminuita. Le donne con le fratture vertebrali più gravi hanno maggiori probabilità di incorrere in ulteriori fratture, con un rischio di frattura dell’anca fino a 3,4 volte superiore e 12,6 volte il rischio di nuove fratture vertebrali. Quasi il 20% delle donne sperimenterà un’altra frattura entro 1 anno dopo una frattura vertebrale. Le fratture vertebrali sono accompagnate da un aumento della mortalità.

Il rischio relativo di morte a seguito della frattura vertebrale è quasi 9 volte superiore. Lo scopo più importante della gestione dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa è proprio la prevenzione della prima frattura vertebrale. Il trattamento dell’osteoporosi deve essere finalizzato alla riduzione del rischio di frattura. I provvedimenti non farmacologici (dieta, attività fisica) o l’eliminazione di fattori di rischio modificabili (fumo, igiene di vita) dovrebbero essere raccomandati a tutti. Al contrario l’utilizzo di farmaci specifici è condizionato dalla valutazione del rapporto rischio/beneficio.

L’obiettivo primario nel trattamento farmacologico dell’osteoporosi è bloccare la perdita di tessuto osseo e, se possibile, stimolare la neoformazione osteoblastica: tutto questo, sotto il profilo clinico, si traduce nella riduzione dell’incidenza di fratture patologiche. I bifosfonati sono i farmaci più utilizzati e la loro efficacia deriva dalla loro elevata affinità all’idrossiapatite.8 Essi si depositano nell’osso, inibendo gli osteoclasti attivi, riducendo così il riassorbimento osseo, e perciò anche la porosità ossea. A causa della loro alta affinità per l’idrossiapatite di calcio, i bisfosfonati si depositano nella superficie ossea e gli amminobisfosfonati esercitano il loro effetto nel sito di riassorbimento attivo attraverso l’inibizione diretta degli osteoclasti attivi. Come risultato di questa inibizione del riassorbimento osseo osteoclastico, la perforazione trabecolare viene ridotta e durante il corso del rimodellamento osseo dall’attività degli osteoblasti, si verifica la formazione ossea. I bisfosfonati registrati attualmente in Europa per il trattamento dell’osteoporosi sono: etidronato, clodronato, alendronato, risedronato, ibandronato e zoledronato. Oltre ad un aumento della densità ossea, sia l’etidronato che l’alendronato hanno dimostrato di inibire le fratture vertebrali nei pazienti con osteoporosi. Inoltre, nei pazienti con fratture preesistenti, l’alendronato è in grado, allo stesso tempo, di abbassare l’incidenza di fratture del collo femorale. Con una corretta somministrazione, gli effetti collaterali gastrointestinali occasionali associati possono essere evitati.

L’introduzione di bisfosfonati nel trattamento dell’osteoporosi è sicuramente un arricchimento dello spettro terapeutico in combinazione con il trattamento di base che comprende calcio, vitamina D, dieta e misure fisiche.9-11 Questi farmaci sono controindicati nei pazienti con ipocalcemia, malattie gastrointestinali, insufficienza renale, ed è talora consigliabile la sostituzione con il denosumab.

Il denosumab è un anticorpo monoclonale completamente umano per l’attivatore del recettore del ligando del fattore nucleare-κB (RANKL) che blocca il suo legame con RANK, inibendo lo sviluppo e l’attività degli osteoclasti, diminuendo il riassorbimento osseo e aumentando la densità ossea.10 Date le sue azioni uniche, il denosumab può essere utile nel trattamento dell’osteoporosi. Generalmente, si utilizzano 60 mg di denosumab sottocute ogni 6 mesi, grazie a questa dose si ha la soppressione quasi totale del turnover osseo e si determina un incremento della BMD superiore a quello che si ottiene mediante bifosfonati e quindi si ha riduzione delle fratture da fragilità in tutti i siti scheletrici. Il denosumab è considerato come un farmaco molto ben tollerato, gli effetti avversi comuni sono infezioni delle vie respiratorie superiore e delle vie urinarie, sciatica, cataratta, costipazione, rush cutaneo e dolore agli arti.

Tra gli altri farmaci, i modulatori selettivi del recettore per gli estrogeni (SERM) ed il ranelato di stronzio sono caduti in disuso per una serie di criticità, mentre il teriparatide (TPTD) risulta ad oggi l’unico agente terapeutico attualmente disponibile che aumenta la formazione di nuovo tessuto osseo e può fornire alcuni rimedi ai difetti architettonici nello scheletro osteoporotico. L’uso clinico di teriparatide è limitato nel momento in cui il farmaco viene sospeso si ha un drastico calo densitometrico che rende necessario l’avvio di una terapia sostituiva. È controindicata nei pazienti con grave insufficienza renale, malattie tumorali e metastatiche dello scheletro e iperparatiroidismo. Per il loro elevato costo queste terapie sono riservate ai pazienti a più elevato rischio (2 o più fratture vertebrali o di femore) o “non responsivi” ai farmaci anti-riassorbitivi. La gestione del dolore non è ovviamente demandabile a questi farmaci ma a specifici FANS ed oppioidi.12

Il trattamento conservativo consiste nel riposo, nella terapia con farmaci analgesici, nell’utilizzo di ortesi e nella successiva terapia riabilitativa. L’obiettivo dell’approccio conservativo è quello di ridurre l’entità della sintomatologia dolorosa e migliorare la capacità del paziente nel mantenere una postura corretta e un buon livello di mobilità, riducendo la durata dell’allettamento. Avere successo terapeutico in questa fase permette di evitare, o almeno ritardare la perdita di massa ossea che a sua volta riduce il rischio di sviluppare ulteriori fratture.

Per la terapia del dolore, i farmaci che possono essere utilizzati sono molteplici; tra questi, i più importanti sono il paracetamolo, i farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS), gli oppioidi, i miorilassanti e quelli che agiscono sul dolore neuropatico (come gli antidepressivi triciclici). La scelta del farmaco analgesico deve tenere conto del tipo di dolore e della sua intensità adeguatamente misurata con scale di valutazione validate.13 Nel 1986 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato alcune linee guida per il trattamento del dolore basate su una scala a tre gradini corrispondenti a gruppi di farmaci a diversa potenza. Lo scopo principale era la legittimazione dell’uso degli oppioidi forti, che scaturiva dalle notevoli resistenze culturali e istituzionali che ne impedivano la prescrizione, sulla base di infondati timori riguardanti gli effetti collaterali, la dipendenza, l’abuso e l’uso illecito.

Il paracetamolo è il farmaco con il migliore profilo di tollerabilità e per questo rappresenta la prima scelta terapeutica. Viene sfruttato il suo effetto antipiretico e analgesico più di quello antiinfiammatorio che viene garantito in maniera maggiore da altre categorie di FANS. Essi però, pur essendo dei farmaci efficaci, sono gravati da importanti effetti collaterali, che vanno da lesioni mucose acute gastroduodenali all’aumentato rischio di sanguinamento, all’insufficienza renale acuta, oltre alle possibili reazioni di tipo allergico. Questi farmaci, indipendentemente che vadano ad inibire la ciclossigenasi-2 in maniera aspecifica o selettiva, aumentano nel lungo termine anche il rischio di sviluppare eventi cardiovascolari, specialmente in pazienti ipertesi e con malattia coronarica cronica. Quando il trattamento con paracetamolo o FANS non permette di avere un buon controllo del dolore, perché presentano una scarsa efficacia o sono responsabili della comparsa di effetti collaterali, è possibile utilizzare i farmaci oppioidi. In caso di dolore moderato, si può optare per l’uso di codeina o tramadolo, mentre per i sintomi più intensi è più opportuno prendere in considerazione l’ossicodone e i farmaci simili.14

La codeina, alcaloide dell’oppio che presenta un buon assorbimento gastroenterico, è da anni proposta in associazione a paracetamolo o FANS. La sua azione analgesica si ha quando viene trasformata in morfina, da parte del citocromo P450 2D6 (CYP2D6), quindi, gli effetti farmacodinamici e le reazioni avverse della codeina, dopo metabolizzazione, sono indistinguibili da quelle della morfina. Codeina e morfina differiscono tra loro per gli aspetti farmacocinetici, con particolare riferimento alla distribuzione nel sistema nervoso centrale (SNC); la morfina subisce un rallentamento nel passaggio e un ritardo della sua azione analgesica mentre la codeina raggiunge molto rapidamente il SNC ma il suo effetto analgesico non svanisce completamente, in piccola parte permane. Peraltro, gli effetti collaterali codeina-correlati (sonnolenza e prolungato transito gastroenterico) sono indipendenti dalla concentrazione ematica del farmaco e questo suggerisce la presenza di un’attività intrinseca della codeina o di uno dei suoi metaboliti.15

Il prodotto a base di ‘‘paracetamolo + codeina’’ è suggerito nella terapia del dolore dall’AIFA.12,14 Essi svolgono la loro azione analgesica prevalentemente inibendo la sinapsi spinale con un’azione tra loro complementari e sinergiche. In particolare, nel dolore osteo-articolare a patogenesi meccanico-strutturale, dove la componente infiammatoria periferica è modesta o trascurabile l’uso combinato di molecole ad azione spinale con rapida insorgenza d’azione può garantire efficacia e flessibilità d’impiego.

Altra molecola molto utilizzata è il tramadolo, un debole agonista dei recettori µ che ha anche la funzione di inibire la ricaptazione di serotonina e noradrenalina, aumentando gli effetti inibitori sulla trasmissione dolorosa a livello midollare e presenta notevole flessibilità in quanto è possibile somministrarlo per os, per via parenterale, epidurale, transmucosale. L’approccio è infine completato dalla terapia fisica strumentale, branca della medicina riabilitativa che utilizza, a scopo terapeutico, le apparecchiature elettromedicali in modo da sfruttare le energie fisiche e agire sui tessuti. L’impatto di queste energie sui tessuti genera una catena di reazioni biologiche che si traducono in specifici effetti terapeutici quali: analgesia, attivazione del metabolismo locale, de-contrattura, tonificazione muscolare, effetti antinfiammatori e antiedemigeni e potenziamento del sistema immunitario. Per quanto riguarda il dolore lombare, le terapie fisiche maggiormente utilizzate sono: ultrasuonoterapia, laserterapia, TENS, infrarossi e diatermia.16

Tutte queste metodiche hanno lo scopo di ridurre il dolore, la contrattura muscolare e l’infiammazione. La loro efficacia non è sicura in quanto, non andando ad agire sulla causa, non permettono la risoluzione della patologia, ma determinano una regressione della sintomatologia di media durata. In conclusione, in buona parte dei casi, la frattura di uno o di più corpi vertebrali è molto doloroso e si raggiunge l’apice della sintomatologia precocemente per poi risolversi spontaneamente in un periodo di circa 6-12 settimane.

CONCLUSIONI

Il paziente come primo approccio ha il trattamento conservativo che consiste soprattutto nel riposo e poi nella terapia con farmaci analgesici, nell’utilizzo di ortesi e nella terapia riabilitativa. L’obiettivo di questo primo approccio è quello di ridurre il dolore e di favorire la capacità del paziente di mantenere una corretta postura per migliorare anche le attività di vita quotidiana. Nella gestione ospedaliera è fondamentale che il farmacista sostenga il medico nelle scelte e nel celere approvvigionamento delle differenti molecole disponibili e la presenza di un protocollo aziendale multidisciplinare che coinvolga la Farmacia ospedaliera è sicuramente sempre auspicabile.

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