AIFA istituisce la Nota 96:
nuovi criteri di prescrivibilità della Vitamina D

 

Mariarosanna De Fina, Antonio Consiglio, Rossella Centola, Valeria Sgarbi, Daniela Scala

Area SIFO Informazione Scientifica, Educazione e Informazione Sanitaria

BACKGROUND

La vitamina D svolge funzioni importanti per la salute delle ossa, aiutando l’organismo ad assorbire il calcio, uno dei principali costituenti del nostro scheletro, e prevenendo l’insorgenza di malattie ossee, come l’osteomalacia o l’osteoporosi.

Le azioni della vitamina D sono da attribuire al suo metabolita attivo, ossia l’1,25-diidrossicolecalciferolo [1,25(OH)2D3] o calcitriolo, che viene prodotto attraverso una serie di passaggi enzimatici a partire dal colecalciferolo o vitamina D3.1 La vitamina D deriva per 4/5 dall’esposizione solare: essa si deposita nel tessuto adiposo, e la quota che si libera viene immediatamente convertita nel fegato in 25(OH)D (25-idrossicolecalciferolo, o calcidiolo), le cui concentrazioni sieriche rappresentano un preciso indicatore dei depositi di vitamina.2 La 25(OH)D viene convertita nel metabolita attivo 1,25(OH)2D soprattutto nel rene, nell’ambito di un meccanismo omeostatico che coinvolge i livelli sierici di paratormone (PTH), calcio e fosforo.

Sebbene non sia stata acquisita un’adeguata standardizzazione dei metodi di dosaggio, la concentrazione sierica di 25(OH)D è ritenuta il miglior indicatore clinico della riserva di vitamina biodisponibile.

Nell’ultimo decennio vari studi osservazionali hanno documentato una relazione tra i livelli di 25(OH)D e svariati altri parametri o condizioni cliniche:

  • valori di densità minerale ossea (BMD);
  • propensione a cadere;
  • incidenza di fratture;
  • eventi cardio-vascolari;
  • neoplasie (soprattutto colon, mammella e prostata);
  • sindromi depressive;
  • diabete;
  • sclerosi multipla.

Recentemente gli esperti dell’Associazione Medici Endocrinologi (AME), sulla base dei dati di efficacia delle più recenti evidenze scientifiche, hanno messo a punto le Linee Guida per il corretto utilizzo della vitamina D in caso di ipovitaminosi accertata.

Diversi autori, attraverso meta-analisi e studi trasversali, hanno identificato il valore soglia di un adeguato stato vitaminico D con una concentrazione sierica di 25(OH)D pari a 32ng/ml.

Lo stato carenziale di vitamina D viene diagnosticato in seguito a specifica titolazione ematica della vitamina stessa, nello specifico quando essa raggiunge concentrazioni nel sangue inferiori a 10ng/ml.

Si configurano, in particolare, quattro range di concentrazioni ematiche di vitamina D, relativi ciascuno ad altrettanti distinti quadri clinici:

  • carenza <10ng/mL;
  • insufficienza: 10-30ng/mL;
  • sufficienza: 30-100ng/mL;
  • tossicità: >100nmg/mL.

Nel Position Statement si evidenzia come un valore inferiore a 30ng/ml possano essere dichiarati affetti da insufficienza di vitamina D (ipovitaminosi D).

Una particolare importanza rivestono il colecalciferolo e il calcifediolo nel trattamento dell’ipovitaminosi D.

Il colecalciferolo, precursore inattivo della vitamina D, viene convertito in forma attiva mediante due successivi passaggi biochimici: dapprima in sede epatica, mediante formazione del calcidiolo, e subito dopo in sede renale, ove si origina il calcitriolo, forma biologicamente attiva della vitamina D3, che espleta i suoi effetti finalizzati in particolare all’assorbimento di calcio a livello intestinale ed al controllo del metabolismo fosfo-calcico in sede ossea. La vitamina D viene prescritta sotto forma di gocce o di flaconcini da assumere giornalmente o in assunzione monosettimanale, o ancora con cadenza mensile o bimestrale. Trova la sua indicazione principe nei soggetti affetti da osteoporosi e/o che assumono contestualmente farmaci per la cura di tale patologia.

Il calcifediolo, invece, non necessita di essere attivato a livello epatico e, a causa delle sue caratteristiche molecolari, risulta meno liposolubile. Inoltre, la sua farmacocinetica e gioca a favore di un maggiore utilizzo nei pazienti carenti di vitamina D che presentano patologie epatiche di un certo rilievo, affetti da obesità o diabesità, o da problemi di malassorbimento in sede intestinale. Viene prescritto in gocce o in capsule molli in prescrizioni giornaliere, settimanali o mensili.

Secondo le “Linee guida relative alla definizione dell’ipovitaminosi D e alle strategie di prevenzione e trattamento” elaborate dalla Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMS), il fabbisogno di vitamina D varia da 1.500 UI/die (adulti sani) a 2.300 UI/die (anziani, con basso apporto di calcio con la dieta).1

PREVALENZA DEL DEFICIT DI VITAMINA D IN ITALIA

Da studi policentrici internazionali, paradossalmente, è emersa una maggiore prevalenza di ipovitaminosi D nei paesi del Sud Europa (Italia, Grecia e Spagna).

Dal punto di vista epidemiologico, la carenza di vitamina D è particolarmente frequente in Italia, soprattutto negli anziani e nei mesi invernali. L’86% delle donne italiane sopra i 70 anni presenta livelli ematici di 25(OH)D inferiori ai 10 ng/ml alla fine dell’inverno.3 L’ipovitaminosi D ha un’elevata incidenza nei soggetti istituzionalizzati o con altre patologie concomitanti, sia per la scarsa esposizione solare che per squilibri dietetici.

Un recente studio volto a stabilire i valori di normalità dei marker del metabolismo minerale in soggetti giovani e sani ha dimostrato che la carenza di vitamina D interessava il 30 ed il 65% dei soggetti per cut-off di 25(OH)D <20 ng/ml o <30 ng/ml, rispettivamente. Il problema va a peggiorare nei mesi invernali anche nei giovani ed in particolare nel sesso femminile.4

LA NUOVA NOTA 96

La Determina AIFA 1533 del 22 Ottobre 2019 istituisce la Nota 96 (Tabella 1) relativa alla prescrizione, a carico del SSN, dei farmaci indicati per la prevenzione ed il trattamento della carenza di vitamina D nell’adulto (>18 anni).5

I farmaci ricompresi nella nuova Nota 96 sono colecalciferolo (vitamina D3), colecalciferolo/sali di calcio e calcifediolo, e la prescrizione di questi a carico del SSN avviene sulla base di specifiche condizioni cliniche, delineate in relazione a nuovi criteri regolatori (Tabella 2). Restano invece confermate le condizioni di rimborsabilità a carico del SSN di tali farmaci per i pazienti pediatrici, in attesa di un analogo processo di rivalutazione.

Il primo principale criterio fa riferimento alla determinazione ematica della 25(OH)D, preormone prodotto nel fegato per idrossilazione del colecalciferolo e convertito nei reni dall’enzima 25-idrossivitamina D3 1-α-idrossilasi in calcitriolo. È oramai da tempo appurato dalla comunità scientifica che il dosaggio dei valori di calcidiolo ematico rappresenta il metodo più efficace, nonché il più sensibile, per valutare i livelli di vitamina D nell’organismo.6

Il dosaggio della 25(OH)D circolante è il parametro unanimemente riconosciuto come indicatore affidabile dello status vitaminico. Premesso che la determinazione dei livelli di 25(OH)D non deve essere intesa come procedura di screening, né è indicata obbligatoriamente in tutte le possibili categorie di rischio, essa risulta indispensabile, secondo le direttive della Nota 96, in relazione alle seguenti casistiche di pazienti:

  • persone con livelli sierici di 25(OH)D < 20 ng/mL e sintomi attribuibili a ipovitaminosi (astenia, mialgie, dolori diffusi o localizzati di lunga durata, frequenti cadute immotivate);
  • persone con diagnosi di iperparatiroidismo secondario a ipovitaminosi D (PTH elevato con livelli di calcio ematico normali o bassi);
  • sintomi di osteomalacia come dolenzia in sedi ossee o dolore (anche pulsante) lombosacrale, pelvico o agli arti inferiori; senso di impedimento fisico; dolori o debolezza muscolare (anche di grado elevato) soprattutto ai quadricipiti ed ai glutei con difficoltà ad alzarsi da seduto o andatura ondeggiante;
  • persone affette da osteoporosi di qualsiasi causa od osteopatie accertate candidate a terapia remineralizzante (es. malattia di Paget), per le quali la correzione dell’ipovitaminosi dovrebbe essere propedeutica all’inizio della terapia (le terapie remineralizzanti dovrebbero essere iniziate dopo la correzione della ipovitaminosi D);
  • persone sottoposte ad una terapia di lunga durata con farmaci interferenti col metabolismo della vitamina D (antiepilettici, glucocorticoidi, anti-retrovirali, anti-micotici, colestiramina, orlistat);
  • malattie che possono causare malassorbimento nell’adulto.

La Nota 96 individua altresì tre categorie di pazienti adulti per le quali la rimborsabilità dei suddetti farmaci, impiegati per la prevenzione e il trattamento degli stati carenziali di vitamina D, è prevista indipendentemente dalla determinazione dei livelli di 25(OH) vitamina D, ovvero:

persone istituzionalizzate;

donne in gravidanza o in allattamento;

persone affette da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate non candidate a terapia remineralizzante (cfr. Nota 79).

La società scientifica, specialmente grazie ai risultati di uno studio condotto nel 2011 dalla Commissione dell’Istituto di Medicina Statunitense,7 è unanime nel ritenere il valore di 25(OH)D pari a 20 ng/ml (50 nmol/l) come limite oltre il quale viene garantito un adeguato assorbimento intestinale di calcio e il controllo dei livelli di paratormone nella quasi totalità della popolazione: al di sotto di questo valore risulterebbe quindi opportuno intervenire mediante una supplementazione.

El Hajj Fuleihan e collaboratori hanno inoltre identificato un intervallo ideale (“desiderable range”) di valori di 25(OH)D, sia dal punto di vista dell’efficacia che della sicurezza, compreso tra 20 ng/mL (oltre i quali vi è garanzia di efficacia) e 40 ng/mL (al di sotto dei quali non si presentano rischi aggiuntivi).8

Per quanto riguarda invece le raccomandazioni circa l’esecuzione del dosaggio di 25(OH) vitamina D, si può riconoscere un fil rouge nell’oramai comprovata inappropriatezza dello screening esteso in generale all’intera popolazione.9,10

EVIDENZE SCIENTIFICHE

I risultati di molteplici studi osservazionali hanno dimostrato la correlazione tra insufficienza di vitamina D ed insorgenza di un’ampia varietà di conseguenze cliniche invalidanti come ad esempio fratture, cardiopatie di natura ischemica, malattie cerebro-vascolari e tumori. Sebbene ancora oggi sussistano dibattiti e controversie in campo medico in relazione all’appropriatezza di un’adeguata integrazione di vitamina D nel caso di specifici quadri clinici (es. cardiopatie, neoplasie, malattie degenerative, metaboliche, respiratorie etc.), svariate evidenze scientifiche fanno emergere peggiori condizioni di salute in soggetti per i quali risulta un basso apporto di vitamina D.

Questo dato ha portato alla valutazione, mediante opportuni studi sperimentali, dell’efficacia della supplementazione con vitamina D nella riduzione del rischio di insorgenza di diverse patologie, soprattutto extrascheletriche. I risultati di trial clinici randomizzati (RCT) ad elevata numerosità non hanno confermato tali ipotesi, e hanno delineato in oncologia e cardiologia aree di documentata inefficacia della supplementazione con vitamina D (Tabella 3).11,12

I primi studi condotti sulla vitamina D illustrano in modo decisivo l’efficacia della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento di rachitismo ed osteomalacia. Studi più recenti, e le meta-analisi che li includono, depongono a favore di una modesta riduzione del rischio di frattura con somministrazione di dosi di vitamina D3 > 800 UI/die (specialmente se in associazione ad un apporto di calcio >1,2 g/die). Tra i vari studi inclusi nelle meta-analisi, il peso maggiore spetta a quelli condotti su soggetti ospiti di strutture protette, mentre considerando solo popolazioni non istituzionalizzate, viventi in autonomia, la riduzione di rischio legata alla somministrazione di vitamina D risulta non significativa.13,14 Per quanto riguarda l’Italia, negli ultimi 20 anni sono stati condotti numerosi studi sullo status della vitamina D in popolazioni che abbracciano fasce di età e condizioni di vita diverse. Isaia e collaboratori11 riportano livelli circolanti di 25(OH)D inferiori a 12 ng/mL (30 nmol/L) nel 76% delle donne italiane di età superiore ai 70 anni, alla fine dell’inverno. Nei soggetti istituzionalizzati o con patologie di base, la percentuale di soggetti con ipovitaminosi D risultava ancora maggiore. Inoltre, in 608 donne giovani e sane, il 30% si è rivelato carente di vitamina D (cut-off del siero 25(OH) <20 ng/mL, 50 nmol/L), ed anche nei soggetti più giovani sono stati rilevati livelli più bassi nelle donne e nella stagione invernale.15

Molte donne in gravidanza sono a rischio di insufficienza di vitamina D: questa condizione è associata ad un aumento delle complicanze legate proprio allo stato gravidico, e principalmente alla pre-eclampsia ed al parto cesareo. Viene segnalata la correlazione tra il deficit materno di vitamina D (<20 ng/mL, <50 nmol/L) e il diabete gestazionale, il parto prematuro e l’asma pediatrico: di conseguenza, queste complicanze appaiono meno frequenti nelle donne in gravidanza i cui livelli di 25(OH)D sono superiori a 40 ng/mL (100 nmol/L). La supplementazione di vitamina D in gravidanza è sicura fino a 4000 UI/giorno.16 Una revisione sistematica di RCT ha dimostrato che l’integrazione prenatale di vitamina D è associata ad un aumento del peso medio alla nascita, alla riduzione del rischio di parti prematuri, alla riduzione del rischio di respiro sibilante nel neonato e all’aumento della lunghezza del bambino a un anno di età, senza alcun effetto sulla nascita pretermine. L’integrazione dovrebbe essere personalizzata in base alla risposta variabile al trattamento, dovuta al diverso peso corporeo e all’esposizione solare.17

L’obesità e la carenza di vitamina D rappresentano un importante problema di salute in tutto il mondo, almeno nei paesi occidentali. Una revisione sistematica e meta-analisi condotta su 34 studi cross-selectional ha dimostrato una correlazione debole e negativa tra i livelli sierici di 25(OH)D e l’indice di massa corporea (IMC) in adulti sani di entrambi i sessi nei paesi in via di sviluppo.18 La forza della meta-analisi, tuttavia, era bassa a causa dell’elevata eterogeneità degli studi.

Infine, uno studio randomizzato su soggetti obesi ha dimostrato che i livelli sierici di 25(OH)D in risposta alla supplementazione di vitamina D3 sono direttamente correlati alla dose somministrata e alle dimensioni del corpo: risultavano necessari almeno circa 2,5 UI/kg per ogni incremento di unità ematica (ng/mL) di 25(OH).19

È dimostrata pertanto una debole correlazione inversa tra vitamina D sierica e IMC: i pazienti obesi (IMC> 30 kg/m2) potrebbero richiedere dosi 2-3 volte maggiori della vitamina in questione sia per il trattamento che per la prevenzione dello stato carenziale o della sua insufficienza. A causa del suo profilo farmacocinetico, il calcifediolo potrebbe rappresentare un’opzione alternativa al colecalciferolo.20







TOSSICITÀ/SICUREZZA DELLA SUPPLEMENTAZIONE DI VITAMINA D

Un sovradosaggio di vitamina D può risultare estremamente pericoloso. Dai dati SIN-SEPI rilevati dai Centri Antiveleni (CAV) di Milano e di Bergamo risultano: 145 casi di intossicazione da colecalciferolo (di cui 123 con età <6 anni, 6 con età compresa tra 6-19 anni, 14 con età <19 anni).

Alte dosi di vitamina D, infatti, possono determinare intossicazione caratterizzata da ipercalcemia e rapido deterioramento della funzionalità renale.1 Adulti e bambini con età superiore agli 11 anni non dovrebbero assumere più di 100 mcg/die (4000 UI); i bambini con età compresa tra 1-10 anni non dovrebbero assumere più di 50 mcg/die (2000 UI); nei neonati (età <1anno) è consigliata una dose massima giornaliera pari a 25 mcg (2000 UI).22

Questi dosaggi dovrebbero tuttavia essere adattati all’apporto non farmacologico di vitamina D; possono essere considerati sicuri in soggetti anziani con scarsa esposizione solare, ma la stessa dose potrebbe non risultare sicura a lungo termine nei soggetti giovani, magri e con frequente esposizione solare.

BIBLIOGRAFIA

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