Nuove frontiere del trattamento farmacologico
dei disturbi dello spettro autistico

Valeria Sgarbi, Antonio Consiglio, Mariarosanna De Fina, Daniela Scala

Area SIFO Informazione Scientifica, Educazione e Informazione Sanitaria

INTRODUZIONE

Il disturbo dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD) è un disturbo dello sviluppo neurologico caratterizzato da menomazioni psico-relazionali (ad esempio, anomalo uso del linguaggio o forte tendenza al mutismo, sguardo generalmente rivolto verso il basso, inespressività del volto, alterata elaborazione delle emozioni e del giudizio sociale) e dalla presenza di comportamenti limitati e movimenti ripetitivi (battito di mani, dondolio, torsione incontrollata e alternata del busto).

Sebbene siano stati approvati diversi farmaci per il trattamento dell’ASD (i.e., farmaci antipsicotici come risperidone ed aripiprazolo) la loro assunzione non è priva di rischi e di effetti collaterali negativi come, ad esempio, letargia e aumento di peso. È da considerare, inoltre, che queste molecole sono in grado di trattare solo i comportamenti associati all’ASD (come l’irritabilità, espressa in genere sotto forma di urla e gemiti), mentre si rivelano purtroppo inefficaci nel migliorarne gli aspetti psico-relazionali. Per tali ragioni si rende necessaria una ricerca che identifichi la biologia alla base dello sviluppo della patologia e, di conseguenza, l’identificazione di terapie farmacologiche in grado di intervenire su queste vie di segnalazione, modificandone il decorso.1

FATTORI DI RISCHIO GENETICI ED AMBIENTALI

L’autismo fu definito per la prima volta da Leo Kanner nel 1943 come una difficoltà innata a creare un contatto emotivo normale e biologicamente determinato con gli altri. Ad oggi questo deficit è ampiamente riconosciuto e la mancanza di reciprocità sociale è una parte centrale della diagnosi.

Negli ultimi decenni ci sono stati grandi cambiamenti nella concettualizzazione dell’autismo e dei disturbi correlati, ad oggi uno degli obiettivi principali della ricerca è quello di trovare in fattori di rischio genetici potenziali cause sullo sviluppo della patologia, alla luce delle alte stime rilevate di ereditabilità.2

Il rischio di ricorrenza del disturbo pervasivo dello sviluppo nei fratelli di bambini con autismo è compreso tra il 2% e l’8%, e sale dal 12% al 20% se si prendono in considerazione fratelli che mostrano una disabilità in uno o due dei tre domini alterati nell’autismo, ovvero interazione sociale, comunicazione e modelli di comportamento (i.e., abilità ed interessi ripetitivi e stereotipati).3

Uno studio condotto da Lichtenstein e colleghi ha dimostrato che i gemelli monozigoti presentavano tassi di concordanza più elevati rispetto ai gemelli dizigoti per ASD, disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), e disturbo della coordinazione dello sviluppo, con differenze crociate negli effetti del disturbo tra gemelli monozigoti e dizigotici, sollevando l’ipotesi dell’esistenza di fattori genetici specifici alla base di questi disturbi.4

Un altro studio di Hallmayer e colleghi, basato su popolazioni di gemelli ed in cui sono stati utilizzati gli standard contemporanei per la diagnosi dell’autismo, ha stimato che il valore di ereditabilità si aggiri intorno al 55%.5

Secondo altri due studi, la prevalenza di riarrangiamenti cromosomici de novo è maggiore nei soggetti di famiglie simplex (ovvero con un solo individuo affetto) rispetto ai soggetti di famiglie multiplex, il che è coerente con l’elevato tasso di mutazioni de novo degne di nota identificate nei probandi delle famiglie simplex, ovvero nei primi individui esaminati in una famiglia in cui si riscontra un determinato carattere genetico per stabilire se esso sia ereditario, e con quale modalità venga trasmesso.6-7 Ciò è anche coerente con i risultati di studi che hanno dimostrato che l’aggregazione familiare di tratti autistici subclinici può verificarsi solo nelle famiglie multiplex, suggerendo meccanismi differenziali di trasmissione genetica dell’autismo nella popolazione.8

Gli individui con ASD mostrano differenti capacità linguistiche, che possono variare da linguaggio completamente assente ad un linguaggio fluente, e differenze nello sviluppo cognitivo, che varia da una profonda disabilità intellettiva ad un intelletto superiore alla media. Gli individui possono anche mostrare comorbidità mediche associate, tra cui epilessia e anomalie fisiche minori, così come comorbidità psichiatriche, essendo pertanto interessati da un’ampia eterogeneità clinica. Proprio questa eterogeneità clinica si è dimostrata a lungo un ostacolo alla comprensione dei meccanismi fisiopatologici coinvolti.2

Mentre l’esistenza di molte sindromi genetiche associate all’autismo ha portato per la prima volta a considerare l’esistenza di un’eterogeneità genetica alla base della variabilità clinica della patologia, gli studi genetici sull’autismo idiopatico hanno confermato l’esistenza di diversi difetti in vie di segnalazione comuni a queste sindromi genetiche. Ciò suggerisce che l’autismo può essere causato da una moltitudine di alterazioni genetiche che alla fine influenzano solo un range limitato di percorsi biologici attinenti allo sviluppo ed alla plasticità cerebrale.2

Infatti, sindromi genetiche specifiche come la sindrome di Rett o la sindrome dell’osso fragile, o anomalie citogenetiche, la più comune delle quali è la duplicazione 15q11 – q13 dell’allele materno, associata all’ASD, influenzano proprio la plasticità sinaptica. Inoltre, grazie allo sviluppo di metodologie di screening dell’intero genoma è stato dimostrato che la variazione strutturale genetica contribuisce in modo significativo allo sviluppo dell’autismo. Il rilevamento delle variazioni del numero di copie (Copy Number Variation, CNV) di questi geni mutati ha confermato l’importanza della funzione sinaptica nell’autismo. L’analisi dei geni colpiti da CNV rari ha confermato il ruolo cruciale delle anomalie nella formazione e nel mantenimento delle sinapsi, ma ha anche portato all’identificazione di altre vie coinvolte, tra cui la proliferazione cellulare e la neurogenesi.9 Una delle questioni più importanti rimaste irrisolte, tuttavia, è la comprensione delle relazioni tra variabilità genetica e fenotipo. CNV identici sono stati associati ad autismo e schizofrenia, in particolare riarrangiamenti 16p11. È stato anche suggerito che i geni SHANK3 e NRXN1 fossero coinvolti nella schizofrenia e i geni implicati nell’autismo e/o nella schizofrenia avessero a loro volta CNV assimilabili a quelli coinvolti nello sviluppo dell’ADHD.7-10

Per quanto riguarda la prevalenza dell’ASD, mentre nel 2005 i casi di autismo in una popolazione scolastica di bambini erano stati stimati essere 6/1000, gli ultimi studi fatti dal Centre for Disease Control nel 2006 mostrano una prevalenza di 1 caso su 110, e successivamente di 1/88 nel 2008. Un’ipotesi è che questo aumento sia il risultato dell’ampliamento dei criteri diagnostici e della crescente importanza dello screening per l’ASD.2

Una recente meta-analisi,11 limitata all’individuazione di fattori di rischio legati alla gravidanza, individua tra i principali fattori di rischio per lo sviluppo dell’ADS il diabete gestazionale materno, episodi di sanguinamento gestazionale e l’utilizzo di farmaci in gravidanza: in quest’ultimo caso, ad esempio, l’esposizione prenatale al valproato, specialmente nel primo trimestre di gravidanza, aumenta di circa 8 volte il rischio di contrarre l’ASD.12 Il rischio, inoltre, sembra maggiore per i primogeniti rispetto ai secondogeniti, o dal terzo figlio in poi. Anche l’essere stati esposti ad infezioni intrauterine è associato ad un aumento significativo del rischio di ASD.

NUOVI FARMACI SPERIMENTALI NEL TRATTAMENTO DELL’AUTISMO:
IL RUOLO DEL RECETTORE DELLA VASOPRESSINA

Attualmente non esistono medicinali approvati per trattare i sintomi principali dell’ASD.

Al momento, la terapia, rivolta principalmente alla popolazione pediatrica, si limita ad interventi cognitivi e comportamentali, come ad esempio la terapia del linguaggio e l’analisi applicata del comportamento. Tuttavia, gli studi clinici che valutano queste strategie sono spesso sottodimensionati e le prove della loro efficacia, negli adulti in particolare, sono limitate. Come già accennato, i farmaci di elezione nel trattamento dell’ASD, il cui impiego è oramai consolidato, sono principalmente risperidone ed aripiprazolo, o altri antipsicotici, che tuttavia presentano molteplici effetti collaterali, tra cui discinesia tardiva, aumento di peso e sedazione.13

Sebbene l’eziologia dell’ASD sia complessa e multifattoriale, coinvolgendo diversi fattori genetici e ambientali, sono state identificate diverse vie di comunicazione neurali alla base del comportamento sociale. Il neuropeptide vasopressina, nello specifico, è coinvolto nella modulazione di circuiti cerebrali che regolano i caratteri della socialità e della relazionalità14. La vasopressina è prodotta nei nuclei paraventricolari e sopraottici dell’ipotalamo, che proiettano in regioni chiave del cervello tra cui il sistema olfattivo, la corteccia prefrontale, la corteccia entorinale, l’amigdala e l’ippocampo. Nel cervello, la vasopressina agisce sulla proteina G accoppiata ai recettori della vasopressina V1a e V1b. Il recettore V1a è il sottotipo di recettore dominante nel cervello, mentre l’espressione del recettore V1b è limitata prevalentemente all’ippocampo. Alterazioni della produzione o della funzione della vasopressina, o ancora dell’espressione dei suoi recettori, influiscono sulla natura dei comportamenti sociali, come l’ansia sociale, il legame di coppia e l’attitudine all’aggressività, in modo dipendente dalla specie.13

L’esposizione fetale al farmaco antiepilettico valproato aumenta il rischio di ASD nei bambini, ed è inoltre emersa una correlazione causa-effetto con l’insorgenza e lo sviluppo di deficit sociali nel corrispondente modello sperimentale di ratto ASD. È stato dimostrato che l’infusione di antagonisti del recettore V1a ha favorito la generazione di effetti pro-sociali in questo modello sperimentale di ASD: ciò suggerisce che l’inibizione del recettore V1a potrebbe indurre una maggiore attitudine alla relazionalità negli esseri umani.15 Il recettore V1a, pertanto, è stato considerato uno dei potenziali target terapeutici per il trattamento dell’ASD.

In particolare lo studio VANILLA, di fase 2 in doppio cieco, randomizzato, multicentrico condotto da Bolognani e colleghi, valutava l’efficacia di balovaptan, antagonista competitivo selettivo per il recettore V1a. Nello specifico è stata valutata la somministrazione orale di tre dosi di balovaptan (1,5 mg, 4 mg e 10 mg), rispetto al placebo, in uomini adulti con ASD da moderata a grave e con un QI ≥70. Balovaptan è stato somministrato giornalmente per 12 settimane.13 L’obiettivo dello studio è stato quello di valutare la sicurezza, la tollerabilità e l’effetto di balovaptan sulla comunicazione sociale e sui deficit di interazione sociale.

Il dosaggio più basso di balovaptan (1,5 mg) è stato selezionato per fornire alcune informazioni iniziali sulla sicurezza di una dose che si prevedeva producesse un effetto farmacodinamico limitato. Il dosaggio intermedio di 4 mg è servito a stimare, utilizzando calcoli di modellizzazione, il livello di occupazione di un recettore V1a sulla base di un saggio di aggregazione piastrinica periferica ex vivo e di modelli farmacocinetici/farmacodinamici. Ciò ha predetto un’occupazione del recettore V1a di una percentuale superiore all’80% nel cervello per 24 ore. Si prevedeva che il dosaggio più elevato di 10 mg, invece, fornisse un’occupazione del recettore > 90% nella maggior parte dei partecipanti trattati. I dati di sicurezza disponibili sono stati riesaminati prima di somministrare i dosaggi di 4 e 10 mg.

Lo studio ha coinvolto 223 pazienti rispondenti a criteri definiti dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition (DSM-5), un modello di classificazione internazionale della malattia. I pazienti sono stati randomizzati nel ricevere placebo (n=75) o balovaptan alla dose di 1,5 mg (n=32), 4 mg (n=77) e 10 mg (n=39). L’età media dei partecipanti era compresa tra 22 e 26 anni, e il QI medio compreso tra 95,5 e 98,5 tra i gruppi di trattamento. La gravità di base dell’ASD era simile tra i vari gruppi analizzati. Prima dell’arruolamento e durante lo studio, dall’81 all’86% dei partecipanti nei gruppi di trattamento erano in trattamento farmacologico concomitante con i più comuni inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (dal 28 al 35%). Gli agenti antipsicotici sono stati assunti dal 15 al 28% dei partecipanti nei gruppi di trattamento, mentre farmaci stimolanti del sistema nervoso centrale sono stati assunti dal 13 al 26% dei partecipanti.

Il periodo di trattamento di 12 settimane è stato completato da 192 (86,1%) partecipanti, con un follow-up di sicurezza a 6 settimane dopo l’ultima dose (settimana 18) completato da 186 (83,4%) partecipanti. Sedici pazienti si sono ritirati spontaneamente dallo studio, altri 8 a causa di eventi avversi. Nel corso della terapia sono state monitorate le concentrazioni plasmatiche di balovaptan a seguito di prelievi ematici, per valutarne la variazione nel tempo della concentrazione plasmatica.

L’outcome primario di efficacia era la variazione rispetto al basale alla settimana 12 nei sintomi ASD misurati dal punteggio della Social Responsiveness Scale (SRS-2) valutato dal caregiver. La SRS-2 è una scala composta da 65 items che serve per valutare oggettivamente i sintomi ed i comportamenti associati all’autismo. In tutti i gruppi analizzati, compreso il placebo, è stato segnalato un miglioramento medio dei sintomi valutati su scala SRS-2, alla settimana 12 dal basale. Un risultato secondario chiave è stato il cambiamento rispetto al basale sulla Scala Vineland-II, che valuta i comportamenti e le abilità adattive in tre domini definiti: comunicazione, socializzazione e abilità del vivere quotidiano. Questa scala di valutazione è progettata per la valutazione di pazienti di età compresa tra 0 e 90 anni e valuta i comportamenti adattivi definiti come lo svolgimento delle attività quotidiane richieste per avere una determinata autonomia personale e sociale. Anche in questo caso, sono stati osservati miglioramenti nel punteggio composito Vineland-II nei gruppi trattati con balovaptan rispetto al placebo e l’entità dell’effetto aumentava in maniera direttamente proporzionale alla dose somministrata. In contrasto con l’SRS-2, le variazioni osservate rispetto al basale erano, in media, minime nel gruppo placebo sui punteggi compositi e di dominio Vineland-II, mentre su altre scale risultavano variazioni da piccole a moderate.

I principali miglioramenti con il Vineland-II score si sono stati osservati nel dominio di socializzazione e comunicazione. Per quanto riguarda le abilità del vivere quotidiano, un miglioramento rispetto al placebo è stato osservato per la dose di balovaptan da 4 mg, ma non per le dosi da 1,5 o 10 mg. Una percentuale maggiore di pazienti appartenenti ai gruppi di trattamento con balovaptan 4 e 10 mg ha mostrato, rispetto ai gruppi placebo, un miglioramento di 4 punti o più rispetto al basale sul punteggio composito Vineland-II. La percentuale di responder, inoltre, è aumentata in modo dose-dipendente (placebo 37,9%; balovaptan 1,5 mg 40,0%; balovaptan 4 mg 45,6%; balovaptan 10 mg 55,2%).

Ulteriori misure di esito secondario hanno valutato l’effetto di balovaptan sulla gravità generale dei sintomi maggiori e di altri sintomi minori connessi ad ASD, come comportamenti limitati e ripetitivi, irritabilità, alterazioni dell’umore e ansia sociale, utilizzando la Aberrant Behavior Checklist (ABC) e la Clinical Global Impression-Improvement Scale (CGI-I).Anche se non sono stati osservati miglioramenti significativi generali con entrambe le scale di valutazione, è emerso che sulla scala CGI-I, si è notata una percentuale numericamente più alta di responder (definiti come punteggi di 1 o 2) con tutte e tre le dosi di balovaptan confrontate con placebo alla settimana 12 (% responder dataset 1: placebo 8,7%; balovaptan 1,5 mg 30,8%; dataset 2: placebo 13,5%; balovaptan 4 mg 23,1%; dataset 3: placebo 15,4%, balovaptan 10 mg 23,3%).

Per quanto riguarda le reazioni avverse (Adverse Drug Reactions, ADR), sono state riportate nel 64,0% dei pazienti trattati con placebo, e nel 78,1%, 66,2% e 66,7% dei partecipanti trattati rispettivamente con balovaptan 1,5 mg, 4 mg e 10 mg. La più comune è stata il mal di testa, segnalata più spesso nei partecipanti che ricevevano placebo (21,3%) rispetto al trattamento con balovaptan (dose da 1,5 mg 12,5%; dose da 4 mg 13,0%; dose da 10 mg 12,8%). Nel corso delle 12 settimane di trattamento si sono verificate 7 reazioni avverse gravi in quattro partecipanti: un caso di ideazione suicidaria (ADR grave) in un paziente trattato con placebo, 5 ADR gravi in due partecipanti trattati con balovaptan 1,5 mg (partecipante 1: disfunzione del nodo del seno; partecipante 2: rabdomiolisi, psicosi acuta e agitazione) e una ADR grave (sincope) in un partecipante trattato con balovaptan 4 mg.

Sebbene dunque lo studio VANILLA non abbia soddisfatto l’endpoint di efficacia primario (miglioramento dello score SRS-2 con balovaptan rispetto al placebo) è da sottolineare come invece per lo score Vineland-II (endpoint secondario di efficacia) si sia presentata una differenza statisticamente significativa della terapia con balovaptan rispetto al placebo. Ciò suggerisce che l’inibizione del recettore V1a migliora i comportamenti sociali e la comunicazione in partecipanti adulti con ASD e aggiunge ulteriori evidenze nel dimostrare un ruolo della vasopressina nello sviluppo dei comportamenti sociali umani. È importante considerare inoltre che lo studio VANILLA è stato limitato a maschi adulti con QI ≥ 70, punteggio SRS-2 ≥ 66 e punteggio CGI-S ≥ 4 (moderatamente malati), inoltre la durata del trattamento di 12 settimane risulta relativamente breve per poter valutare un’effettiva efficacia a lungo termine di balovaptan.

Lo studio CONSORT, condotto da Parker e colleghi, randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo ha voluto dimostrare come la somministrazione intranasale di arginina e vasopressina (arginin-vasopressina, AVP) avesse un effetto sullo sviluppo delle abilità cognitive negli uomini adulti.16 Questi studi hanno dimostrato che la somministrazione di singole dosi di AVP per via intranasale migliora una varietà di abilità sociali, inclusa la memoria emotiva dei volti, l’identificazione di parole del parlato quotidiano e il comportamento cooperativo in individui sani. È stato anche dimostrato che dosi singole di AVP intranasale migliorano il parlato e la formazione delle parole nei pazienti con afasia post ictus, oltre che la memoria a breve e lungo termine dei pazienti con diabete insipido, suggerendo che questo composto interviene nei processi cognitivi.17-20 I precisi meccanismi con cui l’AVP somministrato per via nasale ed altri neuropeptidi determinino la modulazione delle abilità cognitive, comunicative e comportamentali rimangono tuttavia ancora da determinare.

Lo studio ha arruolato 30 partecipanti (25 maschi e 5 femmine) sani dal punto di vista medico, tra i 6 ed i 12,9 anni di età, QI ≥ 50, CGI-S ≥4 che hanno completato la somministrazione intranasale di AVP in 4 settimane. Anche in questo caso, come endpoint primario valutato è stato scelto lo score SRS-2, mentre l’endpoint secondario consisteva nel CGI-I score. È stato anche analizzato se le concentrazioni ematiche di neuropeptidi nel pretrattamento potessero predire la risposta al trattamento dell’AVP. Effettivamente, i partecipanti con le più alte concentrazioni plasmatiche di AVP, prima di essere sottoposti al trattamento, hanno beneficiato maggiormente di AVP intranasale. Questa condizione avrebbe anche una spiegazione scientifica a supporto: i pazienti affetti da ASD con ridotta sensibilità ad AVP possono presentarsi con concentrazioni elevate di vasopressina e proprio questi individui possono beneficiare più efficacemente della somministrazione di AVP. Questo è un meccanismo simile a quello che si osserva, per esempio, in pazienti insulino-resistenti che mostrano concentrazioni di insulina “compensatoria” elevate.

Dopo la somministrazione della prima dose di AVP, il regime di aumento della dose domiciliare per tutti i partecipanti prevedeva la somministrazione di 4 UI due volte al giorno (bis in die, BID) di AVP durante la settimana 1 e 8 UI BID di AVP durante la settimana 2. I partecipanti di età compresa tra 6 e 9,5 anni hanno quindi ricevuto 12 UI BID di AVP durante le settimane 3 e 4, mentre i partecipanti di età compresa tra 9,6 e 12,9 anni hanno ricevuto 16 UI BID di AVP durante le settimane 3 e 4. Il trattamento è stato ben tollerato, con ADR lievi. Nessun paziente si è ritirato dallo studio, tutti hanno completato il ciclo di somministrazioni, e non sono comparse differenze statisticamente significative in termini di ADR nel gruppo sperimentale (n=17) rispetto al placebo (n=13).

Il miglioramento dello score SRS-2 rispetto al basale nei pazienti trattati con AVP è stato del 17.6 ± 1.37, comparato con il 10.8 ± 2.1 del placebo, mentre il miglioramento dello score CGI-I rispetto al basale è stato di 2.23 ± 0.149 (AVP) vs 2.93 ± 0.244 (placebo). In entrambi i casi, nei pazienti con concentrazioni plasmatiche più elevate di AVP al pretrattamento sono stati rilevati benefici maggiori nella terapia rispetto a chi presentava invece valori plasmatici di AVP più bassi.

Outcome secondari valutati dai genitori come ansia generalizzata (valutata tramite la Spence Children’s Anxiety Scale, SCAS), e comportamenti stereotipati, autolesivi, compulsivi, ritualistici o restrittivi (valutati tramite la Repetitive Behavior Scale-Revised, RBS-R) hanno mostrato i seguenti risultati (AVP vs placebo rispettivamente): ansia 17.9 ± 1.66 vs 9.14 ± 2.68; comportamenti stereotipati 2.24 ± 0.313 vs 2.23 ± 0.486; autolesivi 0.594 ± 0.467 vs 1.18 ± 0.828; compulsivi 3.35 ± 0.511 vs 4.59 ± 0.819; ritualistici 3.08 ± 0.504 vs 4.63 ± 0.818; restrittivi 2.58 ± 0.54 vs 3.4 ± 1.01.

Sicuramente, uno dei limiti principali dello studio è l’esigua numerosità del campione di pazienti analizzati, che comporta numerosi bias correlabili anche all’eterogeneità di base della popolazione presa in esame. Inoltre, è da considerare che i pazienti analizzati hanno continuato ad assumere la loro terapia di base in maniera continuativa, non interagente con il trattamento con AVP. Il miglioramento di base osservato con AVP, tuttavia, potrebbe essere attribuito in parte anche alle terapie concomitanti. Infine, la valutazione dell’esito primario (e molte delle misurazioni di esito secondarie) si basava sulla segnalazione da parte dei genitori, i quali percepivano e comunicavano i cambiamenti legati al trattamento dell’AVP. Sebbene le valutazioni siano state in un secondo momento rielaborate per farle ricomprendere nel gold standard, le misure adottate per questo scopo erano comunque di natura soggettiva. Quest’ultima caratteristica, almeno per l’esito primario, è stata a sua volta reinterpretata tenendo conto della soggettività della segnalazione del punteggio SRS-2 attribuito dal genitore, giungendo alla conclusione secondo cui la valutazione del clinico effettuata in cieco e tramite le prestazioni del bambino su test di laboratorio avrebbero infine avvalorato le valutazioni dei genitori.

In ogni caso, lo studio dimostra come la somministrazione intranasale di AVP migliori le capacità di comunicazione sociale, ridimensioni la sintomatologia correlata all’ansia e riduca i comportamenti compulsivi e ripetitivi nei bambini con ASD, dimostrandosi pertanto una terapia ben tollerata e sicura, con buona compliance da parte dei pazienti, dato, quest’ultimo, da non sottovalutare, considerata la fragilità dei pazienti a cui è rivolta la terapia.

CONCLUSIONI

Sebbene l’eziologia dell’ASD sia complessa e multifattoriale, coinvolgendo diversi fattori genetici e ambientali, per molti dei quali deve essere ancora dimostrata l’effettiva correlazione con lo sviluppo di ASD, per diversi percorsi neurali è stato individuato un ruolo focale nell’evoluzione e nel decorso del comportamento sociale. La vasopressina, un neuropeptide coinvolto nella modulazione di circuiti cerebrali che regolano la relazionalità e la pro-socialità, in particolare la via di segnalazione che coinvolge uno dei suoi recettori, V1a, sembra mostrare un ruolo importante nel miglioramento dei sintomi legati all’autismo. L’alterazione dell’espressione della vasopressina, o dell’espressione dei suoi recettori, infatti, influisce sulla regolazione di comportamenti sociali come ansia, legame affettivo e aggressività.

Diversi studi sono stati fatti per definire se la via di segnalazione che coinvolge la vasopressina possa avere un ruolo farmacologico nel trattamento dell’autismo, considerato che attualmente non esiste una vera e propria terapia farmacologica per l’ASD (eccetto l’utilizzo di farmaci antipsicotici, tra cui aripiprazolo, che tuttavia danno molti effetti collaterali e si limitano a trattare l’irritabilità associata alla patologia). Un antagonista del recettore V1a, balovaptan, sembra mostrare risultati soddisfacenti nel miglioramento del comportamento generale dei pazienti autistici, inclusi comunicazione, socializzazione e abilità del vivere quotidiano. Sebbene lo studio VANILLA sia ancora in fase 2, esso ha mostrato risultati promettenti, ma che sicuramente sarà necessario approfondire.

Indubbiamente, intervenire farmacologicamente nella via di segnalazione della vasopressina inibendo in particolare il recettore V1a), migliora i comportamenti sociali e la comunicazione in partecipanti adulti con ASD, e rappresenta al momento una possibile speranza di cura, con un significativo miglioramento della qualità della vita di questa tipologia di pazienti e dei loro caregiver, oltre che una potenziale risorsa nel trattamento di una patologia ancora oggi poco conosciuta, e con scarse alternative terapeutiche valide.




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