Il tempo delle biotecnologie.
Prolegomeni di un progresso remoto

Parte seconda

Roberto Colonna, 1 Daniele Marotta, 1 Antonella Piscitelli, 1 Vincenzo Iadevaia 1

1 Centro Interdipartimentale di Ricerca in Farmacoeconomia e Farmacoutilizzazione (CIRFF) dell’Università Federico II di Napoli

Care colleghe, cari colleghi,

le biotecnologie sono oggi, probabilmente, uno dei temi cardini della nostra modernità. In questo lavoro, di cui quella che vi apprestate a leggere è la seconda parte di quattro che segue a quella pubblicata nel numero precedente per un ciclo di articoli che si concluderà nei prossimi numeri del Bollettino SIFO , Roberto Colonna, Daniele Marotta, Antonella Piscitelli e Vincenzo Iadevaia del Centro Interdipartimentale di Ricerca in Farmacoeconomia e Farmacoutilizzazione (CIRFF) dell’Università Federico II di Napoli, provano, con esiti decisamente postivi, a fare una storia di questa conoscenza che intreccia problemi e interrogativi di natura assai differente. Proprio per queste ragioni, gli autori hanno giustamente avviato le loro riflessioni a partite dalle cosiddette “condizioni di possibilità”, muovendosi quindi in un ambito essenzialmente filosofico, per poi analizzare cronologicamente tutte le tappe che hanno segnato la lunga e suggestiva storia delle biotecnologie. Nel complesso i saggi, benché corposi e pregni di nozioni, si presentano equilibrati nei contenuti quanto nella forma e offrono una efficace panoramica sulla storia delle biotecnologie. Di particolare interesse risultano essere anche le note a piè di pagina, le quali, oltre ad assolvere alla funzione strumentale di fornire le indicazioni delle fonti utilizzate, rappresentano un interessante sottotesto secondario che arricchisce e stimola ricerche connesse agli argomenti trattati nel testo principale.

Enrica Menditto

Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.

Ludwig Wittgenstein

Nel 1917 un ingegn ere ungherese, Károly Ereky, usò per la prima volta il termine “biotecnologia” per indicare i processi di lavorazione dei prodotti agricoli per alimentazione zootecnica. A partire da allora, con l’avanzamento delle conoscenze dei meccanismi biologici e le conseguenti appli cazioni tecniche, la biotecnologia assunse rapidamente quelle sembianze, oggi evidenti, di «conoscenza e studio ( logos ) di norme della vita organica ( bios ) per il concreto svolgimento di attività manuali o intellettuali ( technè ) rivolte a trasformare una materia prima per produrre e ricavarne beni oppure per innovare servizi» 1 . Altro elemento, che caratterizzò le biotecnologie fin dall’inizio, fu la tendenza a diversificarsi «in funzione dei sistemi biotici studiati nella loro utilizzazione per la trasformazione della materia prima e in rapporto all’ambito di applicazione, dando così luogo alle biotecnologie enzimatiche, cellulari e microbiche e applicate ai vegetali, agli animali, alla salute dell’uomo» 2 . Sicché cominciarono a svilupparsi biotecnologie per la depurazione delle acque fognarie (1910); per la produzione industriale di sostanze organiche come l’acetone, la glicerina, il butanolo (1912); per la produzione di farmaci come gli antibiotici (1944), a cominciare dalla penicillina, scoperta da Fleming nel 1929 3 , che diede avvio la produzione industriale di molecole ottenute dal metabolismo di microrganismi.

Nel 1928 Anthony Frederick Griffith, durante le ricerche per sviluppare un vaccino contro uno pneumococco (lo Streptococcus pneumoniae , che, come è noto, è alla base della polmonite pneumococcica), scoprì che questi microrganismi possono acquisire, riconoscere e mantenere materiale ereditario esogeno (trasferimento genico orizzontale), derivante da altri batteri 4 . Dagli anni Trenta in avanti, del resto, la biologia molecolare offrì un adeguato supporto culturale a quella che venne definita ingegneria genetica, vale a dire la capacità di sfruttare le tecniche genetiche come base per le “nuove biotecnologie”. Così, nel 1934 Harold Urey preparò i primi composti organici deuterati, l’anno successivo Wendell Meredith Stanley cristallizzò il primo virus, il virus del mosaico del tabacco, mentre nel 1953 Stanley Miller dimostrò che con le giuste condizioni ambientali si potevano formare “spontaneamente”, per sintesi, delle molecole organiche a partire da sostanze inorganiche più semplici.

La vera svolta si ebbe però nel 1953 quando Rosalind Franklin, James Watson e Francis Crick presentarono, sulla rivista Nature , il primo modello della struttura dell’acido desossiribonucleico (DNA) 5 . Il grande merito di questi tre scienziati fu non tanto di scoprire il DNA, di cui all’epoca già si conosceva l’esistenza, ma il permettere di capire come funzionasse, poiché è il modo in cui funziona che rende il DNA particolarmente importante all’interno dei processi vitali.

Il DNA è una macromolecola presente in tutti gli organismi, eucarioti, procarioti e virus, costituita da nucleotidi che contengono basi azotate di due tipi, purine (adenina e timina) e pirimidine (guanina e citosina), assortite tra loro in maniera precisa e unite da legami a idrogeno in modo da formare una struttura a eliche complementari o anche detta a doppia elica. Il genoma, ossia il complesso dei geni di una cellula o di un organismo, è formato di DNA o, nel caso di alcuni virus, di RNA; mentre la porzione del genoma che codifica per il tRNA, che darà poi origine a una proteina, è il gene.

La struttura del DNA è quella di un polimero lineare costituito da una sequenza di quattro tipi diversi di basi monomeriche, i deossiribonucleotidi (a loro volta formati da una base azotata, dallo zucchero desossiribosio e da uno o più gruppi fosfato), organizzate in precise sequenze lineari (Figura 2) 6 .




Ed è nella sequenza lineare che è codificata l’informazione genetica: due catene polimeriche complementari si arrotolano l’una sull’altra e formano la doppia elica del DNA, in cui ogni subunità monomerica di una catena (le basi) si appaia specificamente con la subunità complementare sulla catena opposta 7 . Le due catene della doppia elica del DNA si separano a seguito della rottura dei deboli legami a idrogeno tra i nucleotidi dei filamenti complementari per l’azione degli enzimi di replicazione 8 . Nei procarioti e negli eucarioti, quando le due catene si separano per la duplicazione, entrambe vengono usate come stampo per la sintesi di altre due catene complementari, formando due nuove molecole a doppia elica identiche, una per ogni cellula figlia. Se una catena viene danneggiata, la continuità dell’informazione è assicurata dall’informazione presente sull’altra catena 9 . Le sequenze di deossiribonucleotidi sono, dunque, «lo stampo per la produzione di altre molecole identiche di DNA da distribuire alla progenie quando la cellula si divide» 10 .

Non avendo il DNA una complessità intrinseca paragonabile a strutture come le cellule o i cromosomi, esso assume solo nel suo contesto biologico il significato di firma molecolare. Questo perché il DNA è la sostanza di cui sono fatti i geni. I geni contengono l’informazione biologica, o genotipo, che viene tradotta nei caratteri fenotipici degli organismi viventi ed è trasmessa di generazione in generazione. Sono i geni che, per esempio, determinano il colore delle ali di una farfalla, il profumo di una rosa o l’altezza di una persona 11 . Pertanto, affinché l’esistenza di una specie biologica possa propagarsi nel tempo, è necessario che la sua informazione genetica sia conservata in forma stabile ed espressa con un numero bassissimo di errori: una delle proprietà più rilevanti di una cellula di un organismo è proprio la capacità di riprodurre se stessa all’infinito, con una fedeltà pressoché assoluta.

Questa continuità delle caratteristiche ereditarie – che implica una costanza anche per periodi evolutivi lunghissimi delle strutture delle molecole che contengono l’informazione genetica – è un aspetto sorprendente, la cui portata la si può comprendere solo se la si rapporta a un qualcosa di estremamente concreto e materiale come le vicende che scandiscono la storia umana. Da questo teorico parallelo risulta evidente che le informazioni genetiche si tramandino minimizzando le variazioni di sequenza e senza perdita di informazione genetica per archi temporali molto ampi e, particolare non secondario, tali informazioni sono compattate in spazi estremamente ridotti (le catene di DNA sono larghe tra i 22 e i 26 Å, con unità nucleotidiche lunghe 3,3 Å) 12 . Se solo pochi reperti delle civiltà passate sono sopravvissuti fino a oggi, molte evidenze sperimentali dimostrano invece che l’informazione genetica negli organismi viventi è rimasta di fatto invariata per periodi enormemente più lunghi. Si confrontino, per esempio, e con una buona dose di immaginazione, il Prisma di Sennacherib e una molecola a catena singola di DNA del batterio Escherichia Coli . Il Prisma di Sennacherib descrive con i caratteri cuneiformi della lingua assira alcuni eventi storici avvenuti durante il regno del re Sennacherib: il Prisma contiene circa ventimila caratteri, pesa cinquanta chilogrammi ed è sopravvissuto intatto per circa duemilasettecento anni. La molecola dell’ Escherichia Coli conserva dentro di sé tutte le informazioni necessarie per specificare la struttura della cellula e le sue funzioni: il DNA batterico contiene circa dieci milioni di caratteri (nucleotidi), pesa meno di 10 -10 grammi e ha subito solo piccole modificazioni nei milioni di anni in cui la sua presenza è attestata sulla Terra.

La “Lunga durata” delle informazioni genetiche rispetto alla trasmissione della cultura

Prisma di Sennacherib

DNA della molecola del batterio E. Coli

Descrive con i caratteri cuneiformi della lingua assira alcuni eventi storici avvenuti durante il regno del re Sennacherib.

Possiede in sé tutte le informazioni necessarie per specificare la struttura della cellula e le sue funzioni.

Contiene circa ventimila caratteri.

Contiene circa dieci milioni di caratteri (nucleotidi).

Pesa cinquanta chilogrammi.

Pesa meno di 10-10 grammi.

È sopravvissuto intatto per circa duemilasettecento anni.

Ha subito solo piccole modificazioni nei milioni di anni in cui la sua presenza è attestata sulla Terra.


Figura 3 - La “Lunga durata” delle informazioni genetiche rispetto alla trasmissione della cultura

Questo immaginifico confronto, pensato, non senza ironia, con ovvie finalità euristiche, permette di evidenziare le incredibili capacità di cui dispone il DNA e la centralità del suo ruolo nella storia del pianeta.

Il DNA, con il nome di “nucleina”, era stato individuato nel 1869 dal biochimico svizzero Friedrich Miesch er che lo aveva isolato da una sostanza microscopica contenuta nel pus presente in alcune bende chirurgiche raccolte in una clinica nei pressi del suo laboratorio 13 . Non essendo ancora stati inventati gli antisettici, questo pus era ricco di globuli bianchi per cui Miesch er poté costatare che aggiungendo una sostanza alcalina ai grandi nuclei di queste cellule, questi scoppiavano, liberando una nuova sostanza a cui diede appunto il nome di “nucleina”, in quanto supponeva che provenisse dal nucleo. L’analisi chimica della nucleina mostrò che si trattava di un acido che conteneva fosforo e che non rientrava in nessuno dei gruppi di sostanze chimiche della cellula già conosciuti, come le proteine, i carboidrati e i lipidi 14 . Ciononostante, Miescher era convinto che l’informazione ereditaria poteva trasmettersi da cellula a cellula sotto forma di un codice chimico conservato in grosse molecole come le proteine.

Nel 1879 il chimico tedesco Walther Flemming si accorse che nel nucleo vi erano minuscole strutture filamentose costituite di un materiale che chiamò cromatina perché assorbiva rapidamente il colore dei reagenti con i quali si coloravano le cellule e i tessuti; riprendendo questa osservazione, nel 1888 l’anatomista berlinese Wilhelm von Waldeyer definì questi filamenti con il nome, tutt’ora in uso, di cromosomi, ossia, corpi colorati.

Flemming comprese che, durante il processo di divisione cellulare – nominato non a caso “mitosi”, dal momento che richiamava il termine greco mìtos cioè “filo” per sottolineare l’aspetto filiforme dei cromosomi –, prima che la cellula si dividesse, la coppia di cromosomi appaiati si separava in modo che ognuna delle due poteva stabilirsi in una delle due nuove cellule formate dalla divisione, permettendo a ciascuna delle nuove cellule nate di avere un corredo cromosomico nuovo ma geneticamente identico 15 .

Ma fu solo nel 1944 che Oswald Avery e i suoi collaboratori annunciarono di aver scoperto che il DNA 16 , e non le proteine, era il “depositario del programma della vita” 17 . La chiave di questo risultato fu l’uso degli enzimi adoperati come strumenti biochimici capaci di isolare selettivamente uno specifico componente cellulare senza alterare gli altri. Quando i ricercatori aggiungevano alle cellule gli enzimi che digerivano le proteine, l’attività del DNA non ne risentiva e questo dimostrava che il principio trasformante non era una proteina.

Il lavoro di Avery colpì molto il chimico austriaco Erwin Chargaff, il qu ale tagliò campioni di DNA e, dopo aver separato mediante enzimi i singoli nucleotidi, li sottopose alla cromatografia su carta, una tecnica analitica di cui fu indiscusso precorritore 18 . Dopo la visualizzazione sulla carta da filtro ottenne quattro distinte macchie o bande, una per ciascun nucleotide 19 . Chargaff ritagliò, quindi, ciascuna banda dal foglio di carta e ne estrasse i nucleotidi, lavando il pezzetto tagliato con un opportuno solvente, per misurare la quantità di ciascun nucleotide presente nel campione di DNA in esame. Si accorse così che in qualsiasi campione di DNA il numero di molecole di A era sempre uguale al numero di molecole di T, e allo stesso modo la quantità di C era sempre identico a quella di G 20 .

Di fatto la composizione del DNA era stata svelata, ciò che rimaneva ancora da capire era il suo funzionamento. La questione verteva sulla capacità di una visualizzazione spaziale delle molecole, giacché fino a quel momento si riuscivano a produrre solo immagini bidimensionali che fornivano scarse indicazioni per comprenderne il reale funzionamento. La svolta si ebbe con la cristallografia a raggi X che permetteva di ottenere immagini tridimensionali di grosse molecole biologiche come le proteine e gli acidi nucleici, cogliendo da tali immagini la posizione di ogni atomo nello spazio 21 .

La strada per l’affermazione di questa nuova tecnica fu aperta da William e Lawrence Bragg, ma fu un loro studente, William Astbury, che nel 1938 ottenne la prima immagine del DNA ai raggi X. L’immagine prodotta tuttavia non aveva una buona definizione e le interpretazioni che ne seguirono furono molto difficoltose. Sarà necessario aspettare gli anni Cinquanta per iniziare ad avere esiti soddisfacenti, prima con Maurice Wilkins, che utilizzò un improvvisato apparecchio a raggi X, e poi, soprattutto nel 1951 con Rosalind Franklin. Fin da questi primi tentativi, s i intuiva che il DNA potesse avere una forma a elica, a conferma delle convinzioni di Linus Pauling 22 , il quale sosteneva che questa forma geometrica era una delle più presenti in natura, come dimostravano la conformazione di molte infiorescenze e di molte conchiglie, la struttura delle corna di alcuni animali, le traiettorie del moto dei cicloni, e, perfino, la morfologia della gran parte delle galassie.

La possibilità che il DNA si mostrasse come un elicoide era la tesi di fondo anche di James Watson e Francis Crick, convinti che questo tipo di struttura potesse spiegare anche il suo essere una molecola autoreplicante che produce copie di sé durante la divisione cellulare per trasmettere le informazioni genetiche alle nuove cellule. Pertanto, nel 1953, adoperando delle immagini da diffrazione a raggi X realizzate dalla Franklin, Watson e Crick pubblicarono sulla rivista Nature , cinque articoli in cui per la prima volta veniva presentato il modello a doppia elica della struttura del DNA, la cui figura fu disegnata dalla moglie di Crick, la pittrice Odile Speed.

Gli studi di Watson e Crick – la cui importanza fu riconosciuta anche dal premio Nobel per la medicina del 1962, assegnato ai due scienziati ma incredibilmente non alla Franklin – sarà l’avvio di una serie di nuove “tecniche”, tra cui spiccano senza dubbio le biotecnologie moderne e l’ingegneria genetica, che avranno ricadute considerevoli tanto in campo scientifico che socioculturale. La scoperta del funzionamento del DNA permise, infatti, di isolare e utilizzare «una porzione di informazione biologica in svariati ambiti applicativi» 23 , dando origine a inedite tecnologie genetiche capaci «di intervenire direttamente a livello delle cellule, come nel caso delle colture cellulari o della produzione di anticorpi monoclonali, o, addirittura, a livello delle molecole» 24 . Nello specifico si era capito che il gene modifica per una particolare proteina: questo è un fattore fondamentale poiché «le proteine sono responsabili delle caratteristiche strutturali e per formative del biologico, cosicché trasferire un particolare gene significa apportare una modifica strutturale o performativa a un’entità biologica», attraverso «una traslazione di un costrutto genico da organismi differenti, creando una sorta di orizzontalità nel bios (…) che permette di ricomporre quei torrenti filogenetici che il processo evolutivo aveva rigidamente separato» 25 .

Così sul finire del decennio, si riuscì finalmente a raggiungere quell’obiettivo a lungo perseguito di produrre artificialmente le proteine, e dunque anche enzimi e ormoni, che con le biotecnologie tradizionali non era mai stato possibile ricavare con rese soddisfacenti e costi contenuti. In altre parole, fino ad allora, la ricerca si era mossa ancora “sfruttando” i microbi per la produzione commerciale di alimenti, vaccini, antibiotici e vitamine o per estrarre elementi di valore dai minerali: ognuno di questi risultati era ottenuto da cellule vive, per cui il compito dei ricercatori era trovare la cellula più adatta allo scopo per poi sviluppare un metodo di coltivazione su larga scala.

La grande rivoluzione dei saperi biologici degli anni Settanta, all’interno della quale nacquero le biotecnologie moderne e, per merito di Paul Berg, Herbert Boyer e Stanley Cohen, l’ingegneria genetica, fu contraddistinta d’altronde dall’impegno a definire, in modo sistemico e strategico, e sulla base di una visione delle scienze e delle tecnologie della vita di tipo meccanicistico, una nuova prospettiva, fondata sui processi biologici intesi in termini molecolari. Discipline quali la genetica, l’immunologia, la farmacologia, la biologia cellulare abbandonarono l’approccio fenomenologico e descrittivo, entrando nel vivo delle relazioni di causa-effetto alla base di questi processi. La biochimica e la biologia molecolare, istituzionalmente depositarie delle strategie di studio e delle metodologie utili a decifrare questi meccanismi, iniziarono a identificare le regole necessarie a interpretare a livello deterministico i processi biologici e di conseguenza a ricostruirli in vitro, con il duplice vantaggio di aumentare le conoscenze e di ottenere prodotti utilizzabili per molte applicazioni 26 . Questo approccio, all’epoca così innovativo, svanirà lentamente nel corso dei lustri successivi con l’affermarsi di quella prospettiva olistica nelle scienze biologiche tutt’oggi dominante.

Con l’avvento delle biotecnologie moderne, i microorganismi divennero come “fabbriche” dedicate a produrre sostanze chimiche pregiate in modo illimitato 27 . Ciò fu reso possibile per merito dell’affermazione di un particolare procedimento, noto come “tecnologia del DNA ricombinante”, che permetteva l’inserimento di geni nelle cellule, riproducendo in modo artificiale un processo che avveniva da sempre in natura. Tale tecnica consisteva nel mettere insieme (“combinare”, appunto) geni di origine diversa e di inserirli all’interno di un microorganismo. In pratica, con la “tecnologia del DNA ricombinante”, il gene di un animale vertebrato, ivi compreso l’uomo, poteva essere inserito nel DNA di un batterio, oppure un gene di un virus nel DNA di un lievito. In questo modo, per esempio, i batteri con il gene umano dell’insulina sono oggi impiegati per produrre tale ormone destinato al trattamento del diabete, mentre il vaccino per l’epatite B è prodotto da un lievito che porta un gene codificante per una parte del virus dell’epatite (il lievito può, infatti, produrre una proteina del capside virale che funziona da antigene) 28 .

Le procedure del DNA ricombinante richiedono che le molecole di DNA siano manipolate al di fuori delle cellule e quindi reintrodotte in cellule vive. Esistono diversi modi per introdurre il DNA nelle cellule e di solito il metodo più adatto viene scelto in base al tipo di vettore e di cellula ospite utilizzati. Uno dei più diffusi è quello cosiddetto della “trasformazione”. In natura, i plasmidi – vale a dire una molecola di DNA circolare a doppio filamento, presente nel citoplasma dei batteri e capace di replicarsi indipendentemente dal cromosoma che si trova in molti batteri 29 – vengono normalmente trasferiti tra microorganismi strettamente correlati attraverso un contatto diretto tra cellule, come nella coniugazione. Nell’ingegneria genetica, un plasmide deve essere inserito in una cellula attraverso appunto la “trasformazione”, durante la quale le cellule possono incorporare il DNA presente nell’ambiente circostante. Brutalmente, questa pratica può essere descritta come un’operazione di “taglio, cucito e copiatura” 30 . In altre parole, il gene viene dapprima escisso dal DNA dell’organismo da cui proviene, quindi “cucito” dentro una nuova molecola di DNA, ossia nel vettore, che lo trasporta nell’organismo ospite. Infine, viene copiato numerose volte, ovvero clonato, man mano che l’organismo ospite si riproduce 31 . Molti tipi di cellule, di solito, non subiscono “trasformazione”, tuttavia semplici trattamenti chimici possono rendere questi tipi di cellule “competenti”, cioè in grado di acquisire DNA esogeno 32 .

Questa procedura di acquisizione in laboratorio di un gene estraneo, in realtà, non è tanto innovativa, in un certo senso, «ogni volta che un individuo si ammala di raffreddore, acquisisce – contro la sua volontà – geni virali estranei» 33 . In natura, si verifica un processo chiamato “trasferimento genico orizzontale” (Horizontal Gene Transfer - HGT), con il quale un organismo trasferisce materiale genetico a un’altra cellula non discendente. Benché sia stato riscontrato che la percentuale di acquisizione di geni trasferiti orizzontalmente negli eucarioti siano generalmente inferiori a quelli dei procarioti, l’HGT, lungi dall’essere un evento raro, ha contribuito all’evoluzione di molte specie animali. Anche perché la maggior parte di questi geni trasferiti controlla il metabolismo, per cui è stato ipotizzato che l’HGT abbia avuto (e continui ad averlo) un ruolo significativo nella diversificazione biochimica durante l’evoluzione animale 34 .

L’aspetto che qualifica questa pratica dell’ingegneria genetica rispetto a ciò che avviene in natura è il fatto che tale trasferimento possa avvenire in modo, almeno in parte, controllabile 35 . Tale controllo non può essere esercitato in modo completo proprio perché, come si è visto in precedenza, l’artificiale essendo parte del naturale mantiene quel grado di imprevedibilità tipico di tutto ciò che riguarda il vivere e i viventi 36 . A questo proposito, l’inattesa azione convergente degli effetti congiunti di ingegneria genetica (artificiale) e HGT (naturale) può diventare protagonista in negativo di quella «sfida globale posta alla medicina dai batteri resistenti agli antibiotici», per cui «microbi pericolosi come lo Staphylococcus aureus resistente alla meticillina, che ogni anno uccide oltre undicimila persone negli Stati Uniti d’America e molte altre migliaia nel resto del mondo, possono acquisire all’improvviso interi corredi di geni per la farmacoresistenza, da tipi di batteri completamente diversi, attraverso il trasferimento genico orizzontale: è per questo che il problema dei microorganismi multifarmacoresistenti si è diffuso in maniera così rapida nel mondo» 37 .

Un’altra caratteristica che distingue le pratiche dell’ingegneria genetica da quello che succede in natura sono le ricadute che le prime, a dispetto della seconda, provocano in ambito socioculturale. Come è risaputo, con il trasferimento di un DNA estraneo in un animale, in una pianta o in un microbo, si ottiene un organismo transgenico. Queste nuove forme di vita, presenti, sempre più spesso, in svariati e diversi settori del quotidiano 38 , hanno posto una seria problematica etica. Infatti, benché posseggano nel proprio DNA un solo gene di una specie estranea, hanno comunque genomi diversi da tutte le creature emerse nel corso di quella che è considerata la naturale evoluzione delle specie che vivono sulla Terra. Quanto sia radicale questa differenza, dipende dal punto di vista con il quale si interpreta la questione: «si può sostenere che gli esseri umani abbiano da sempre “interferito” con suddetta evoluzione, con lo sviluppo delle tradizionali tecniche d’incrocio delle piante e degli animali, e che l’ingegneria genetica non sia altro che una tecnologia più sofisticata per realizzare incroci. Oppure ci si può schierare con chi guarda all’ingegneria genetica con profondo sospetto per la sua capacità di infrangere le barriere tra le specie» 39 .

A fronte di queste due criticità, ossia il non poter avere un controllo assoluto sugli effetti e le complesse responsabilità etiche indotte dagli stessi, l’ingegneria genetica ha risposto insistendo proprio sul suo aspetto più specifico, ma anche controverso, vale a dire la possibilità di trasferire geni da una specie all’altra. Il tratto distintivo dell’ingegneria genetica è proprio il permettere di superare quel limite per il quale due specie diverse non possono scambiarsi materiale genetico in modo proficuo. Superare un limite del genere significa, in sostanza, aprirsi alla prospettiva di creare nuove specie. Questa potenza ha esercitato un impatto molto profondo sui destini di quegli ambiti in cui le biotecnologie intervengono, cioè la medicina, la farmaceutica, l’agricoltura e l’ambiente. Ambiti che nelle biotecnologie sono interconnessi tra loro, per cui le scoperte che avvengono in uno, sono poi riprese e sfruttate in un altro, con risultati simili o, talvolta, anche superiori.

Non deve pertanto stupire se, per esempio, le cellule vegetali in coltura sono tra le candidate d’elezione per le sperimentazioni dell’ingegneria genetica. Tale scelta è dovuta al fatto che le cellule vegetali, rispetto a quelle animali, sono totipotenti ovvero la loro modalità di espressione genica permette di riprodurre qualsiasi cellula differenziata della pianta matura, per cui la nuova cellula potrà entrare a far parte tanto della radice quanto del meristema, della foglia o del fiore 40 . Le cellule animali invece sono pluripotenti, ossia possono dar luogo a un gruppo limitato di tipi cellulari: si pensi alle cellule staminali prodotte dal midollo osseo dell’uomo e degli altri vertebrati, che possono generare una serie di globuli bianchi per difendere il corpo dalle infezioni, ma non potrebbero mai diventare cellule nervose o muscolari 41 .

Nel 1958, Frederick Campion Steward, sfruttando la totipotenza delle cellule vegetali, tramite coltura in vitro, riuscì a ottenere da una singola cellula un’intera pianta di carota. Così, per l a prima volta le talee e i germogli non erano più necessari per creare ibridi e mutazioni, ma era sufficiente avere una sola cellula della pianta che si intendeva “produrre” per (ri)generare l’intero organismo vegetale. La dimensione del naturale diventava dunque produzione artificiale rendendo difficile riconoscere in modo netto la distinzione naturale-artificiale.

Questo esperimento operò una profonda rivoluzione e pose le basi dell’attuale biologia molecolare vegetale, caratterizzata da processi di clonazione, ibridazione e mutazione attraverso cui si possono realizzare piante in laboratorio piuttosto che con i metodi tradizionali. D’altro canto, la creazione di piante geneticamente identiche (i cloni appunto) dalla cellula di un vegetale dotato di caratteri desiderati, è una delle attività preminenti nel campo delle biotecnologie vegetali odierne. Un campo quest’ultimo a cui quasi subito si è affiancata la produzione di piante transgeniche, vale a dire nate a partire dall’introduzione di geni provenienti da altri organismi in cellule vegetali e la successiva rigenerazione di piante a partire dalle cellule trasformate.

Benché la possibilità di una generazione di “super-piante” progettate a tavolino è ancora molto lontana, i risultati che oggi si riescono a ottenere erano impensabili fino a pochi anni fa e, soprattutto, hanno avuto effetti decisivi sia per i profitti, i quali muovono gran parte delle ricerche in questo settore, sia per gli effetti sull’uomo e sull’ambiente nel quale vive. Emblematico in tal senso è il caso degli erbicidi. Circa il dieci per cento delle coltivazioni mondiali viene perduto a causa della presenza di erbe infestanti. Per combattere questo problema, gli agricoltori utilizzano più di cento diversi tipi di erbicidi con un costo complessivo annuo che supera i dieci miliardi di dollari. Alcuni erbicidi uccidono anche le piante coltivate mentre altri persistono nell’ambiente o vengono trasportati dalle acque superficiali contaminando le riserve idriche locali. Creare piante resistenti agli erbicidi è uno dei modi per aumentare la produttività delle coltivazioni, riducendo allo stesso tempo l’impatto ambientale degli erbicidi. A tale scopo, nelle piante di importanza agricola sono inseriti vettori contenenti geni per la resistenza agli erbicidi 42 . Lo spirito che anima la produzione di questo tipo di piante naturalmente non è quello ambientalista, ma quello del profitto per chi vende e del risparmio per chi acquista, ciononostante, benché succeda di rado quando si parla di profitti economici, anche l’ambiente ne ottiene indiscutibili vantaggi.

Sulla base di queste esperienze, le aziende farmaceutiche compresero fin dai primi esperimenti eseguiti negli anni Settanta, il potenziale applicativo e, ovviamente, le enormi potenzialità di guadagno, che l’ingegneria genetica poteva determinare. La scoperta degli enzimi di restrizione nel 1973 per merito di Stanley Cohen, inizialmente studiati come sistemi di difesa dei microrganismi contro l’infezione da virus, diede la possibilità di avviare operazioni sperimentali sul DNA, rendendo possibile la clonazione genica e, di fatto, la nascita dei farmaci biotecnologici. Per la prima volta nella storia, i farmaci potevano essere creati dall’uomo non più solo attraverso una sintesi chimica ma anche con meccanismi molecolari intrinseci della duplicazione del materiale genetico di un organismo.

Il primo caso di applicazione commerciale dell’ingegneria genetica in campo farmaceutico si è avuto con l’introduzione del gene per l’insulina in un comune batterio intestinale, l’ Escherichia coli . Prima di allora, l’insulina veniva estratta chimicamente dalle ghiandole pancreatiche di cavalli e maiali provenienti dai macelli 43 e, proprio per questo, poteva indurre nell’essere umano reazioni allergiche 44 .

Con lo sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante, i laboratori di ricerca iniziarono a clonare e a sequenziare un gene alla volta, dopo che su quel gene, con un’analisi mutazionale, veniva individuata una potenzialità per poterlo sfruttare in termini farmacologici. La metodologia utilizzata dalla genetica classica per mappare un locus (ossia la posizione di un gene o di un’altra sequenza significativa all’interno di un cromosoma) prevedeva diversi passaggi – dall’isolamento del gene codificante (clonaggio) fino ad arrivare a determinarne la sequenza – grazie ai quali Frederick Sanger nel 1977 sequenziò il primo genoma a base di DNA, quello del batteriofago phi X 174 (o Φ X174), un virus a DNA a filamento singolo (ssDNA) che infetta l’ Escherichia coli . In questo modo, furono poste anche le basi per la costituzione delle genoteche (librerie genomiche), vale a dire collezioni di frammenti di DNA clonato, in plasmidi o virus batteriofagi, che, riuscendo nel loro insieme a rappresentare l’intero genoma di un organismo, permettevano di individuare i geni sui cromosomi e, dunque, di sviluppare diagnosi di malattie genetiche 45 .

La produzione di insulina messa a punto nel 1978 con la tecnologia del DNA ricombinante, e che sarà commercializzata dalla statunitense Genetech a partire dal 1982 46 , ha assicurato, oltre a una riserva pressoché infinita di questa sostanza, grandi vantaggi in terapia: l’insulina così ottenuta è identica a quella prodotta dall’organismo e presenta un minor rischio di reazioni avverse.

Dopo l’insulina, sono state create molte sostanze con la tecnica del DNA ricombinante che si sono rivelate fondamentali in terapia, si pensi, per esempio, all’ormone della crescita prodotto nel 1979 47 , all’eritropoietina nel 1985 48 o all’ormone follicolo-stimolante nel 1995 49 . Non deve, perciò, sorprendere se i farmaci di provenienza biotecnologica erano nel 2000 meno del 10% dei farmaci disponibili, mentre quindici anni dopo hanno acquistato uno spazio rilevante con una tendenza in continua crescita 50 .

Le conoscenze acquisite con il sequenziamento del genoma hanno accresciuto notevolmente la comprensione della genetica umana e, benché sollevino, come più volte finora accennato, questioni etiche, sociali e legali molto complesse e dibattute, hanno, e lo avranno ancor di più in un futuro oramai prossimo, impatti importanti sulla ricerca biomedica e sulla sanità 51 . Si considerino, per esempio, gli enormi vantaggi che queste tecniche hanno apportato nella diagnostica prenatale. In associazione alle tradizionali metodologie di prelievo per ottenere campioni di tessuto, come l’amniocentesi e il prelievo dei villi coriali (CVS), le tecniche biotecnologiche permettono di individuare in età prenatale le patologie genetiche con maggiore accuratezza. In questo tipo di analisi prenatale, il fenotipo fetale può essere esaminato direttamente anziché ricorrere ai pochi test disponibili per prodotti genici normali o mutanti. Questa possibilità è particolarmente importante perché molti prodotti genici non possono essere rilevati prima della nascita, anche quando sono disponibili test specifici 52 .


1 AaVv. 2003. Le biotecnologie vegetali e le varietà OGM. Rapporto della Commissione congiunta delle accademie nazionali dei Lincei e delle Scienze , in < https://www.accademiaxl.it/wp-content/uploads/2016/07/Biotecnologie-vegetali-e-variet%c3%a0-OGM.pdf >, p. 2.

2 Ibidem.

3 In realtà, una quarantina di anni prima che Fleming riscontrasse la colonia di Penicillium notatum in una coltura di stafilococchi, un medico della Marina militare italiana, Vincenzo Tiberio, nel 1893 «aveva già formulato l’ipotesi, avvalorata poi dai risultati di ricerche sperimentali da lui condotte, (…) e documentata in uno studio, del potere di distruzione sui batteri di certe muffe» (Caprino L. 2011. Il farmaco, 7000 anni di storia dal rimedio empirico alle biotecnologie , Roma: Armando Editore, p. 192). Su questo tema, per non ripetere quanto già scritto altrove, si rinvia a Colonna R., Piscitelli A., Iadevaia V. 2019. “Una breve storia della farmacologia occidentale”. Giornale Italiano di Farmacia Clinica , aprile-giugno, vol. 33, n. 2: pp. 86-106.

4 Si fa chiaramente rifermento al celebre “esperimento di Frederick Griffith” che suggerì come i batteri siano in grado di trasferire informazioni genetiche attraverso un processo noto come “trasformazione batterica” (cfr., Lorenz M.G., Wackernagel W. 1994. “Bacterial gene transfer by natural genetic transformation in the environment”. Microbiological reviews , settembre 58 (3): pp. 563-602 (< https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC372978/?tool=pubmed >).

5 Cfr., Watson J., Crick F. 1953. “Molecular structure of nucleic acids: a structure for deoxyribose nucleic acid”. Nature , aprile 25, n. 171: pp. 737-738; e Watson J., Crick F. 1953. “Genetical Implications of the Structure of Deoxyribonucleic Acid”. Nature ” maggio, n. 171, pp. 964-967. Sia Watson sia Crick hanno inoltre pubblicato, successivamente, degli esaustivi resoconti personali sulla vicenda (cfr., Watson J. 2016. La doppia elica . Trent’anni dopo , Milano: Garzanti; Crick F. 1990. La folle caccia. La vera storia della scoperta del codice genetico , Milano: Rizzoli).

6 L’immagine della Figura 2 è tratta da < https://commons.wikimedia.org/wiki/File :Dna-split.png>.

7 Cfr., Nelson D.L., Cox M.M. 2000. I principi di biochimica di Lehninger , Bologna: Zanichelli, p. 14.

8 Cfr., Tortora G.J., Funke B.R., Case C.L. 2008 . Elementi di microbiologia , Torino: Pearson, p. 202.

9 Cfr., Nelson D.L., Cox M.M. Op. cit. , p. 14.

10 Ibidem , p. 13.

11 Cfr., Aldridge S. Op. cit. , pp. 9-10.

12 Cfr., Mandelkern M., Elias J., Eden D., Crothers D. 1981. “The dimensions of DNA in solution”. Journal of Molecular Biology , ottobre 152 (1): pp. 153-161.

13 Cfr., Dahm R. 2005. “Friedrich Miescher and the discovery of DNA”. Developmental Biology , febbraio 15, 278 (2): pp. 274-88.

14 Cfr., Aldridge S. Op. cit. , p. 12.

15 Cfr., Aldridge S. Op. cit. , p. 13. La mitosi permette in tal modo di conservare in ogni cellula appena formata le caratteristiche genetiche di quella che l’ha generata in un procedimento che Italo Calvino ha fotografato mirabilmente, dal punto di vista della cellula, «nello straziante dolore di sentirmi già potenzialmente raddoppiato per potenzialmente possedere qualcosa di potenzialmente mio, e ancora costretto a non possedere, a considerare non mio quindi potenzialmente altrui ciò che potenzialmente sto possedendo» (Calvino I. 1997. Ti con zero (“Priscilla - Mitosi”), in Tutte le cosmicomiche , Milano: Mondadori, p. 213).

16 Cfr., Avery O.T., MacLeod C.M., MacCarty M. 1944. “Studies on the chemical nature of the substance inducing transformation of Pneumococcal types. Induction of transformation by a deoxyribonucleic acid fraction isolated from Pneumococcus type III”. The Journal of experimental medicine . 79: pp. 137-159.

17 Cfr., Aldridge S. Op. cit. , p. 13 e Portin P. 2014. “The birth and development of the DNA theory of inheritance: sixty years since the discovery of the structure of DNA”. Journal of genetics , aprile, 93 (1): pp. 293-302.

18 Sulla figura Erwin Chargaff si rinvia alla sua bellissima autobiografia, Il fuoco di Eraclito , Milano: Garzanti, 1985.

19 I nucleotidi, come è noto, sono le unità che compongono una molecola di DNA. Ogni nucleotide è costituito da tre parti: una base azotata, unita a un pentosio (uno zucchero a cinque atomi di carbonio), a sua volta legato a un gruppo fosfato. Nel nucleotide del DNA, le basi azotate sono quattro: Adenina (A), Timina, (T), Guanina (G) e Citosina (C) (cfr., Campbell N.A. 2001. Biologia . Bologna: Zanichelli, pp. 95-96).

20 Cfr., Aldridge S. Op. cit. , pp. 28-29.

21 La cristallografia a raggi X sfrutta l’interazione dei raggi X con gli elettroni che circondano gli atomi di un cristallo. Un fascio di raggi X viene diretto contro il cristallo e, quando colpisce il bersaglio, l’interazione lo fa deviare dalla direzione originaria. Se il cristallo è circondato da una pellicola fotografica sensibile ai raggi X, questa si impressiona con una serie di puntini prodotti dai raggi X deviati nelle varie direzioni. L’analisi matematica della distribuzione di questi puntini permette di ricostruire la disposizione tridimensionale degli atomi, indicando con buona approssimazione la forma complessiva della molecola (cfr., Aldridge S. Op. cit. , p. 30).

22 Linus Pauling è stato un chimico statunitense divenuto celebre perché, applicando i metodi della meccanica quantistica allo studio della struttura elettronica delle molecole, formulò una teoria sulla natura del legame chimico (cfr., Califano S., Schettino V. 2018. La nascita della meccanica quantistica , Firenze University Press, pp. 117-127). Proprio per l’aver spiegato la natura dei legami chimici gli fu conferito il premio Nobel per la fisica nel 1954, che otto anni dopo bissò con quello per la pace per la sua intensa campagna contro le armi nucleari.

23 Marchesini R. Op. cit. , p. 410.

24 Tallacchini M., Terragni F. 2004. Le biotecnologie. Aspetti etici, sociali e ambientali , Milano: Mondadori, p. 53.

25 Marchesini R. Op. cit ., p. 410.

26 Cfr., Kaplan J.C., Delpech M. 1995. Biologia molecolare e medicina , Napoli: Idelson Gnocchi editore, p. 21.

27 Cfr., Collins F.S., Green E.D., Guttmacher A.E., Guyer M.S. 2003. “A vision for the future of genomic research. A blueprint for the genomic era”. Nature , 422: pp. 835-847 (< https://www.nature.com/articles/nature01626 >).

28 Cfr., Tortora G.J., Funke B.R., Case C.L. Op. cit. , p. 233.

29 Cfr., Korf B.R. 2001. Genetica Umana: Dal problema clinico ai principi fondamentali , Milano: Springer, p. 20. I plasmidi contengono le informazioni genetiche per alcune caratteristiche specifiche, come per esempio la resistenza dei batteri agli antibiotici, e trovano largo impiego nella biologia molecolare per riprodurre indefinitamente frammenti di DNA e per inserire in un batterio uno o più geni estranei (cfr., ibidem ).

30 Aldridge S. 1999. Op. cit. , p. 124.

31 Cfr., ibidem , p. 124. Per meglio comprendere questo complesso processo si può fare riferimento alla sintesi dell’enzima chimosina con cui si fabbrica il “formaggio vegetariano”. Come è noto, la produzione del formaggio dipende dall’azione cagliante dell’enzima chimosina sul latte; la chimosina però si estrae dallo stomaco dei vitelli (motivo per il quale molti vegetariani rifiutano di mangiare, al pari della carne, un formaggio così prodotto). Esistono nondimeno enzimi simili alla chimosina nelle piante, ma non riescono a riprodurre l’aroma e la consistenza del formaggio fatto con la chimosina di vitello. Mediante l’ingegneria genetica è stato possibile trasferire in un lievito i geni della chimosina del vitello e produrre un formaggio con tutte le qualità tradizionali, usando così un enzima proveniente dalla fonte microbica anziché da quella animale (cfr., ibidem , p. 125).

32 Tortora G J., Funke B.R., Case C.L. Op. cit. , p. 240.

33 Ibidem , p. 123.

34 Cfr., Crisp A., Boschetti C., Perry M., Tunnacliffe A., Micklem G. 2015. “Expression of multiple horizontally acquired genes is a hallmark of both vertebrate and invertebrate genomes”. Genome Biology , 16 (50) (< https://genomebiology.biomedcentral.com/articles/10.1186/s13059-015-0607-3#Sec10 >).

35 Cfr., ibidem , p. 124.

36 Si fa qui riferimento alla nota teoria droyseniana della x, per cui «se chiamiamo ‘A’ tutto ciò che un singolo uomo è, e possiede e fa, questo ‘A’ consta di ‘a+x’, dove ‘a’ comprende tutto ciò che gli viene da circostanze esterne, dal suo paese, dal suo popolo, dalla sua epoca, eccetera, e l’infinitamente piccola ‘x’ è il suo apporto proprio, l’opera della sua libera volontà. Per infinitamente piccola che sia quella ‘x’, essa ha un valore infinito, è ciò che solo ha un valore sotto il rispetto morale e umano» (Droysen J.G. 1966. Istorica. Lezioni sulla enciclopedia e metodologia della storia , Milano-Napoli: Riccardo Ricciardi Editore, p. 406).

37 Quammen D. 2020. L’albero intricato , Milano: Adelphi, p. 5.

38 Gli organismi transgenici sono stati creati per numerosi scopi: per migliorare le caratteristiche naturali di un essere vivente, per usarli come “reattori biologici” da cui ricavare prodotti utili o per farne modelli su cui condurre ricerca biologica di base (cfr., Aldridge S. Op. cit ., p. 133).

39 Aldridge S. Op. cit ., pp. 133-134.

40 Cfr. Aldridge S. Op. cit ., pp. 229.

41 Cfr., ibidem , pp. 229-230.

42 Cfr. Klug W.S., Spencer C.A. 2007. Concetti di genetica , Torino: Paravia, pp. 603-604.

43 Cfr., Klug W.S., Spencer C.A. Op. cit. , p. 603. L’insulina era stata isolata nel 1921 dai futuri premi Nobel Frederick Grant Banting e Charles Herbert Best.

44 Il trattamento del diabete basato sull’insulina estratta da bovini o suini può avere effetti collaterali negativi, «dato che la struttura chimica dell’insulina animale non è identica a quella umana, si possono attivare reazioni allergiche» (Campbell N.A., Reece J.B., Simon E.J. 2008. L’essenziale di biologia , Torino: Paravia, p. 217).

45 Cfr., Tortora G. J., Funke B.R., Case C.L. 2008. Op. cit. , pp. 241-242. Tra le genoteche risultano di particolare rilevanza quelle di c-Dna (DNA complementare) che non contengono tutti i frammenti del genoma, ma solo la copia degli RNA messaggeri maturi che sono in grado di sintetizzare un DNA sullo stampo di un RNA (cfr., ibidem ).

46 Cfr., Caprino L. Op. cit ., p. 254.

47 La struttura biochimica dell’ormone della crescita fu identificata nel 1972 e sette anni più tardi fu individuato il gene con il quale fu clonato per la prima volta. La Genentech di San Francisco sviluppò nel 1981 il primo ricombinante dell’ormone della crescita umana (rhGH) mediante un processo biosintetico che poi fu successivamente migliorato con la tecnologia della secrezione proteica (cfr., Ayyar V.S. 2011 “History of growth hormone therapy”. Indian journal of endocrinology and metabolism , settembre, 15(3): pp. 162-165 (< https://www.ijem.in/article.asp?issn=2230-8210;year=2011;volume=15;issue=7;spage=162;epage=165;aulast=Ayyar >).

48 Il concetto di regolazione umorale dell’emopoiesi è stato formulato per la prima volta nel 1906. Il termine “eritropoietina” per l’ormone stimolante l’eritropoiesi fu invece introdotto nel 1948, ma solo nel 1977 l’Epo umano fu isolato, mentre il suo gene fu clonato appunto nel 1985 (cfr., Jelkmann W. 2007. “Erythropoietin after a century of research: younger than ever”. European Journal of Haematology , gennaio: pp. 185-205 (< https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/j.1600-0609.2007.00818.x >).

49 Cfr., La Sala G.B., Colpi G., Palomba S., De Pascalis L., Nicoli A., Villani M.T. 2014. Infertilità Umana: Principi e pratica , Milano: Edra, p. 213. La prima generazione di gonadotropine, utilizzata negli anni Settanta, era costituita dalla menotropina (Human Menopausal Gonadotropin - HMG), ossia da gonadotropine umane estratte dalle urine di donne in post menopausa e costituite da una combinazione di LH e FSH in rapporto 1:1. In seguito, dagli inizi degli anni Ottanta, è stata prodotta una grande varietà di gonadotropine, come l’FSH purificato (FSH-P), con contenuto inferiore a 1 UI di LH per 75 UI di FSH, fino all’avvento, nei primi anni Novanta, delle gonadotropine urinarie di terza generazione, altamente purificate (Highly Purified FSH, FSH-HP) in cui il contenuto di LH è ridotto a meno di 0,1 UI per 75 UI di FSH. Alla metà degli anni Novanta è comparsa la quarta generazione di gonadotropine, prodotta attraverso la tecnologia del DNA ricombinante (rFSH), totalmente purificata dal contenuto di LH, seguita poi dalla realizzazione di una formulazione di LH ricombinante (rLH) (cfr., AIFA. 2018 Position Paper. Approccio farmacologico all’infertilità di coppia: le gonadotropine , p. 4, in < https://www.sigo.it/wp-content/uploads/2018/03/AIFA_Position-Paper-gonadotropine.pdf >). Si veda anche Loumaye E., Campbell R., Salat-Baroux J. 1995. “Human follicle-stimulating hormone produced by recombinant DNA technology: a review for clinicians”. Human Reproduction Update , v. 1, n. 2 Oxford University Press: pp. 188-199.

50 Cfr., Fumagalli G., Clementi F. 2018. Farmacologia generale e molecolare . Milano: Edra, p. 146. «Nel 2012, la stima delle vendite di prodotti biotecnologici a livello mondiale era di circa 163 miliardi di dollari, il 19 % delle vendite totali di prodotti venduti su prescrizione (850 miliardi dollari). Il numero di prodotti biotech disponibili in commercio è passato da 16 nel 1982, a 66 nel 1990, a 108 nel primo decennio degli anni 2000, e nel 2104 supera appunto i 200, il 74% (165) dei quali sono commercializzati da 27 aziende farmaceutiche in proprio o in partnership. Tra i primi 10 farmaci soggetti a prescrizione più venduti nel 2012, 6 erano prodotti biotecnologici. Su 119 prodotti complessivi classificati come blockbuster (con vendite superiori a 1 miliardo di dollari l’anno), 47 (39%) sono stati farmaci biotech e le vendite sono cresciute da 36 milioni di dollari nel 2002 a 163 milioni di dollari nel 2012. L’impennata del biotech ha abbracciato quasi tutte le aree mediche, per numero di prodotti e indicazioni approvati» (Evens R.P., Kaitin K.I. 2014. “The biotechnology innovation machine: a source of intelligent biopharmaceuticals for the pharma industry. Mapping biotechnology’s success”. Clinical pharmacology and therapeutics , maggio 95 (5): pp. 528-532, si veda in particolare p. 530).

51 Cfr., Klug W.S., Spencer C.A. Op. cit. , p. 603.

52 Cfr., Klug W.S., Spencer C.A. Op. cit. , p. 609.

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