Il tempo delle biotecnologie.
Prolegomeni di un progresso remoto

Roberto Colonna,1 Daniele Marotta,1 Antonella Piscitelli,1 Vincenzo Iadevaia1

1Centro Interdipartimentale di Ricerca in Farmacoeconomia e Farmacoutilizzazione (CIRFF) dell’Università Federico II di Napoli

Parte terza

Care colleghe, cari colleghi,

le biotecnologie sono oggi, probabilmente, uno dei temi cardini della nostra modernità. In questo lavoro, di cui quella che vi apprestate a leggere è la terza parte di quattro che segue a quella pubblicate nel numero precedente, per un ciclo di articoli che si concluderà nel prossimo numero del Bollettino SIFO, Roberto Colonna, Daniele Marotta, Antonella Piscitelli e Vincenzo Iadevaia del Centro Interdipartimentale di Ricerca in Farmacoeconomia e Farmacoutilizzazione (CIRFF) dell’Università Federico II di Napoli, provano, con esiti decisamente postivi, a fare una storia di questa conoscenza che intreccia problemi e interrogativi di natura assai differente. Proprio per queste ragioni, gli autori hanno giustamente avviato le loro riflessioni a partite dalle cosiddette “condizioni di possibilità”, muovendosi quindi in un ambito essenzialmente filosofico, per poi analizzare cronologicamente tutte le tappe che hanno segnato la lunga e suggestiva storia delle biotecnologie. Nel complesso i saggi, benché corposi e pregni di nozioni, si presentano equilibrati nei contenuti quanto nella forma e offrono una efficace panoramica sulla storia delle biotecnologie. Di particolare interesse risultano essere anche le note a piè di pagina, le quali, oltre ad assolvere alla funzione strumentale di fornire le indicazioni delle fonti utilizzate, rappresentano un interessante sottotesto secondario che arricchisce e stimola ricerche connesse agli argomenti trattati nel testo principale.

Enrica Menditto

L’immagine logica dei fatti è il pensiero.

Ludwig Wittgenstein

Le ultime due decadi del Novecento vedranno un’accelerazione sostanziale delle conoscenze biotecnologie. Se gli anni Ottanta proiettarono l’umanità nel futuro con il fingerprinting (genetic fingerprint o DNA profiling, in italiano “impronta genetica individuale”), negli anni Novanta il Progetto Genoma darà forma concreta a suggestioni che fino a poco tempo prima avevano avuto significato solo nei romanzi di science fiction più arditi e fantasiosi.

Il DNA fingerprinting è una tecnica che permette di determinare le caratteristiche del DNA di un individuo mediante la cosiddetta impronta genetica. Tutto ebbe inizio quando Kary B. Mullis nel 1983 ideò la metodica della Polymerase Chain Reaction (PCR - Reazione a Catena della Polimerasi), che permise, attraverso l’amplificazione (ovvero la moltiplicazione) di frammenti di acidi nucleici, di ottenere in vitro, con tempistiche rapide, quantità di materiale genetico utili per un vastissimo campo di applicazioni, dalla diagnostica microbiologica alla medicina legale, dalle analisi di paleontologia e di antropologia molecolare agli studi sul genoma di popolazioni e di organismi non coltivabili (tra i quali numerosi batteri e protisti). La PCR, insieme alla scoperta delle Ripetizioni in Tandem Semplici (STR, dal termine inglese “Short Tandem Repeats”) – ossia del microsatellite, cioè le sequenze ripetute di DNA non codificante, costituite da unità di ripetizione molto corte –, spianò la strada per la nascita del fingerprinting, vale a dire l’analisi veloce delle impronte genetiche individuali, con la quale è possibile identificare i DNA provenienti da individui diversi.

L’invenzione del fingerprinting genetico si deve però ad Alec John Jeffreys che nel 1984 ne definì la metodologia applicativa sulla base di sequenze note di DNA come quelle del DNA minisatellite ipervariabile. Queste sequenze, composte da 10-100 coppie di basi per ripetizione, possono essere analizzate usando gli enzimi di restrizione, i quali lavorano come forbici molecolari per tagliare il DNA in sequenze definite (sequenze di riconoscimento).

Il fingerprinting fu utilizzato, fin dall’inizio, per l’attribuzione o il disconoscimento di paternità e per stabilire i colpevoli di reati di omicidio o stupro, a partire da campioni, anche minimi, di sangue, capelli, saliva o sperma. Tuttavia, i suoi ambiti di intervento si sono via via allargati al punto che oggi con tale tecnica, è possibile svolgere analisi accurate in settori tra loro molto differenti: per esempio, è possibile determinare la compatibilità per i trapianti di organi, o poter verificare il successo delle impollinazioni controllate, o individuare la presenza di un elemento con una base genetica nota (come potrebbe essere una semente OGM in un campione), o elaborare alberi genealogici, o ricercare persone scomparse, o svolgere indagini su personaggi storici o, nei casi di bioterrorismo (attraverso l’identificazione dei ceppi microbici), effettuare controlli sui commerci illegali di piante e animali, o analizzare la qualità dei cibi e delle acque attraverso l’identificazione di microbi contaminanti o, infine, rilevare infezioni virali, come l’HIV, l’epatite o l’influenza.

L’ampio ventaglio di applicazioni del fingerprinting conferma l’eccezionale impatto che questa tecnica ha avuto nelle indagini genetiche, a testimonianza del grande fermento delle scienze biologiche in questo periodo. Ma il fingerprinting sarà tutt’altro che un punto di arrivo. Nell’ultimo scorcio del Ventesimo Secolo la comunità scientifica vivrà, forse, un momento ancora più straordinario.

Il primo vagito di questa nuova fase fu certamente il Progetto Genoma Umano (Human Genome Project - HGP) che ebbe inizio ufficialmente il primo ottobre del 1990, quando il Governo degli Stati Uniti d’America decise di finanziare con tre miliardi di dollari un piano della durata di quindici anni per sequenziare il genoma umano e, in prospettiva, quello di molti altri organismi modello. Sarà l’emblematico avvio di un decennio che si rivelerà proficuo come non mai per le biotecnologie e, proprio per questa ragione, catalizzerà l’attenzione degli studiosi, e non solo, sulle sorti e i risultati di questa disciplina. Oltre all’HGP in questi anni vedranno, infatti, la luce anche altri sorprendenti progetti, tra cui, le terapie geniche applicate all’uomo e la nascita dei primi animali clonati.

Le terapie geniche e la clonazione avranno grande eco anche nei mass media, dividendo l’opinione pubblica in fazioni divise da visioni radicali, anticipando un fenomeno che in seguito diventerà molto comune: sostenere e rilanciare l’un l’altro tesi molto complesse, su cui, in realtà solo gli addetti ai lavori potrebbero (dovrebbero) discutere ed eventualmente polemizzare attraverso lavori scientifici pubblicati su riviste riconosciute.

Il primo tentativo di terapia genica fu compiuto, senza fortuna, e con uno strascico di grandi polemiche, da Martin Cline nel 1980. La terapia genica consiste nella somministrazione in un paziente con un gene difettivo di una copia di un gene “normale” al fine di ripristinare una situazione di salubre e perfetto funzionamento fisiologico. Rispetto a un tradizionale trattamento medicale con i famaci, la terapia genica si differenzia per le modalità con cui avviene il passaggio dalla fase di laboratorio alla sperimentazione clinica nei pazienti. Quando viene inventato un nuovo farmaco, come un antibiotico o un sonnifero, dopo la sintesi in laboratorio si procede con gli esperimenti in provetta e sugli animali per poi dedicarsi alla sperimentazione sull’uomo. Nella terapia genica, invece, è necessario identificare e clonare il gene da impiegare, poi scegliere un vettore adatto a inserirlo nelle cellule e, infine, creare un animale transgenico che soffra della malattia che si intende curare per verificarne l’efficacia della terapia.

Dall’episodio di Cline, ci vorranno altri dieci anni per riuscire a curare con la terapia genica una bambina affetta dal deficit dell’enzima dell’adenosina deaminasi (ADA-SCID), una rara malattia che provoca una carenza di questo enzima con ripercussioni gravi sul sistema immunitario. French Anderson inserì i geni che codificano per l’ADA all’interno del sangue prelevato dalla bambina mediante tecniche di ingegneria genetica; le cellule modificate furono poi trasfuse nuovamente nel suo corpo in modo che i nuovi geni potessero iniziare a produrre copie del vitale enzima e il sistema immunitario riprendere a funzionare in piena regola.

La nascita del primo animale clonato avvenne a Edimburgo nel 1997, quando una equipe di scienziati guidati da Ian Wilmut realizzò la clonazione di un mammifero, una pecora, che fu chiamata “Dolly”. La tecnica utilizzata consisté nel prelevare il nucleo di una cellula somatica di un animale adulto, un esemplare della razza Finn-Dorset di sei anni, e introdurlo in un uovo non fecondato (ovocita) privato del proprio materiale genetico tramite rimozione del nucleo: l’ovocita così rinucleato fu indotto ad avviare lo sviluppo del feto tramite elettroshock. Questo embrione fu poi impiantato nell’utero di una madre surrogata che portò avanti la gravidanza, al termine della quale nacque un animale geneticamente identico a quello dal quale era stata prelevata la cellula adulta. Dopo la clonazione della pecora Dolly furono clonati molti altri mammiferi come gatti, tori e cavalli. Le applicazioni biotecnologiche per la clonazione di animali modificati geneticamente furono numerose e inclusero la produzione di farmaci, di organi o di tessuti animali adatti per i trapianti negli esseri umani, la creazione di modelli animali per lo studio delle malattie e la cura di alcune di esse. Ma, allo stesso tempo, sollevarono (e continuano a farlo) una serie molto varia di questioni che vanno dal benessere degli animali prodotti, alle problematiche giuridiche ed economiche connesse alla registrazione dei nuovi brevetti o alle ricadute sull’ambiente che potevano scaturire da queste pratiche.

Il Progetto Genoma Umano può essere considerato uno dei progetti di ricerca più ambiziosi di sempre, la cui missione è stata decifrare la composizione chimica dell’intero codice genetico umano (cioè, appunto, il genoma). L’obiettivo dichiarato era, attraverso l’isolamento e l’analisi del materiale genetico contenuto nel DNA, fornire agli scienziati nuovi e potenti approcci per comprendere lo sviluppo delle malattie e creare nuove strategie per la loro prevenzione e cura.

La storia del HGP iniziò nel 1985, quando Robert Sinsheimer organizzò all’Università della California di Santa Cruz un convegno scientifico per discutere la possibilità di decodificare l’intero genoma umano. Sinsheimer partiva dal presupposto che decifrando il DNA si sarebbero compresi i meccanismi biologici e molecolari di molte malattie genetiche, aprendo la strada a nuove e più efficaci terapie. L’anno successivo anche Renato Dulbecco, in un suo editoriale su Science, sostenne l’idea di mappare il DNA e i geni in esso contenuto. Leory Hood, all’epoca ricercatore presso la Applied Biosystems, in quel medesimo 1986 inventò il sequenziatore automatico che si sarebbe rivelato uno strumento indispensabile per la realizzazione dell’impresa. Il sostegno economico, che diede concretamente avvio al progetto, fu concesso, come prima ricordato, nell’ottobre del 1990 dal Governo statunitense che affidò la direzione del HGP allo “US Department of Energy” e del “National Institutes of Healt”, con l’istituzione di un consorzio pubblico coordinato da Francis Collins, a cui si affiancò dopo poco anche un’impresa privata, la Celera Genomics, diretta da Craig Venter.

Il rapido progredire dei mezzi tecnici impiegati per la lettura delle basi e l’accesa competizione tra Collins e Venter, oltre al coinvolgimento di molte università e centri di ricerca di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Giappone e Cina, permise di ottenere con un largo anticipo rispetto ai programmi una prima bozza del progetto che copriva circa il 96% delle sequenze codificante del genoma. La notizia fu data al mondo il 14 maggio del 2000 dal presidente statunitense Bill Clinton durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, mentre i primi risultati scientifici furono pubblicati nel 2001 sulle riviste Nature (quelli di Collins) e Science (quelli di Venter).

Tra le tappe più significative che condussero al successo il Progetto Genoma ci fu, anzitutto, l’allestimento di diversi tipi di mappatura, poi l’individuazione dei “marcatori”, ossia le sequenze di segnale distribuiti lungo il DNA, e, infine, la messa a punto di tecnologie sempre più sofisticate e interconnesse con l’informatica. Accanto al Progetto Genoma Umano sorsero alcuni Progetti Genoma Paralleli che permisero nel 1995 di sequenziare per la prima volta il genoma di un organismo vivente, Haemophilus influenzae, a cui seguì nel 1996 quello del lievito da panificazione (Saccharomyces cerevisiae), nel 1997 quello dell’Escherichia coli, per arrivare a quello del moscerino della frutta (Drosophilia melanogaster), del verme (Caenorhabditis elegans) e del topo (Mus musculus).

Con il completamento dello HGP nel 2003, il mondo scientifico ha assistito a una radicale rivoluzione delle proprie certezze. Le conoscenze sul genoma umano hanno, infatti, consentito il consolidarsi di una nuova dimensione della medicina, la “Medicina Predittiva”, ovvero un approccio che, sulla base delle informazioni ricavabili dalla costituzione genetica individuale, riesce a stimare in una persona, con un ragionevole grado di affidabilità, la possibilità di sviluppare alcuni tipi di patologie durante il corso della vita.

L’implicazione degli studi sui geni nella gestione delle malattie umane ha avuto, naturalmente, ricadute importanti anche in ambito farmaceutico. Gli anni Ottanta, d’altronde, avevano creato un substrato assai fertile per l’avvento di quella che si rivelerà essere una vera e propria svolta. Infatti, da un lato le tecniche del DNA ricombinante avevano permesso di produrre in modo artificiale grandi quantità di proteine di interesse farmacologico, come l’insulina, l’interferone o l’ormone della crescita; dall’altro, sulla scorta delle tecnologie e delle conoscenze rese disponibili dalla biologia molecolare erano state elaborate nuove ipotesi sui meccanismi alla base delle malattie e individuato nuovi obiettivi (“target”) biologici per la progettazione di farmaci più performanti.

In un settore che viveva da oltre un decennio una fase di grande fermento, i risultati del Progetto Genoma impressero un ulteriore impulso, costringendo di fatto le industrie farmaceutiche a riorganizzarsi rapidamente. Per poter avere accesso e utilizzare le sequenze geniche, queste aziende avviarono molteplici collaborazioni con centri di ricerca esterni e programmi per formare ricercatori propri su questi temi. Nacque così la genomica medica, una disciplina finalizzata a identificare strumenti diagnostici innovativi e a progettare nuovi farmaci. Assieme alla genetica, entrarono nei laboratori anche altre competenze come la bioinformatica, che metteva a disposizione esperti di algoritmi in grado di gestire le banche dati biomediche, comparare sequenze e strutture per trovare funzioni nascoste.

La bioinformatica, e, successivamente, la biologia computazionale, con obiettivi diversi, si occupano di analizzare ampie raccolte di dati biologici, come genomi, fenotipi cellulari o proteomi. Uno dei tratti più innovativi di questo settore è consistito nell’adoperare algoritmi, metodologie analitico-computazionali, modellizzazioni matematiche e analisi di simulazioni che, attraverso algoritmi di machine learning e grafi relazionali, hanno permesso di processare un numero eccezionale di informazioni biologiche. Nello specifico, la bioinformatica crea i database biomedici e i software per gestirli, mentre la biologia computazionale applica algoritmi matematici che esplorano quantitativamente i fenomeni biologici e le biomolecole evidenziando i meccanismi molecolari e funzionali in cui sono coinvolti, producendo modelli quantitativi e predizioni statisticamente significative. La biologia computazionale ha reso per esempio semplice e produttivo il paragone tra genoma e trascrittoma (o proteoma) umani con quelli di altri organismi (per esempio, i batteri o i funghi) sia nei tessuti sani che in situazioni patologiche, consentendo di identificare numerosi meccanismi su cui intervenire con nuove strategie di ricerca e di poter individuare target biologici per lo sviluppo di nuovi farmaci.

La biologia computazionale ha avuto poi un ruolo cruciale per l’affermazione di quell’approccio di tipo sistemico nei saperi biologici – e, infatti, si parla in questi casi di biologia dei sistemi – in cui un singolo elemento biologico è considerato e compreso come parte di un meccanismo più ampio e in continua “trans-formazione”. In termini più concreti, l’approccio sistemico rende possibile, a partire dalle informazioni disponibili su una certa malattia, di simulare il decorso di quella malattia e la sua risposta a determinati input, come farmaci, ambiente o semplicemente la progressione del tempo.

I rapidi successi dell’informatica e la disponibilità di computer sempre più potenti hanno fornito un notevole supporto per i ricercatori, dall’identificazione del target biologico fino alla selezione dei nuovi composti attivi. A tal proposito, una tecnologia che si è diffusa nei laboratori di tutto il mondo negli anni Novanta è stata l’High-Throughput Screening (HTS). Si tratta di sistemi altamente automatizzati che consentono di valutare rapidamente migliaia di composti chimici in saggi biologici, utilizzando diversi metodi di rilevazione (per esempio, la fluorescenza o la luminescenza). Solo i composti che mostrano un’attività di sistema rilevabile sono ulteriormente considerati nella fase di drug discovery, mentre gli altri vengono abbandonati.

L’HTS rappresenta, tuttavia, solo il primo passo in quel processo di automatizzazione che sta vivendo – al pari di ogni altro ramo della società occidentale contemporanea – la ricerca farmaco-sanitaria negli ultimi lustri. Non deve, dunque, stupire se nella progettazione dei nuovi farmaci, oltre alle “small molecules” e a strumenti sempre più performanti per elaborare i dati, è divenuto imprescindibile l’apporto della cosiddetta intelligenza artificiale (conosciuta sovente anche con la sola sigla “AI” che sta per “agenti intelligenti”, corrispondente all’acronimo inglese “Artificial Intelligence).

L’intelligenza artificiale può creare da una singola conoscenza che abbia successo una nuova conoscenza anch’essa di successo sia in quell’ambito, sia in ambiti differenti. In altre parole, essa è capace, dopo una opportuna fase di “training”, di valutare ed estrarre da una enorme massa di dati eterogenei (Big Data), un qualcosa di nuovo che, pur già presente, risulta come “nascosto” o “non individuabile”. Tutto ciò, è possibile poiché l’intelligenza artificiale, attraverso l’apprendimento automatico (per esempio, il machine learning), esplora, con algoritmi dedicati (per esempio, le reti neurali), i dati che acquisisce, per poi sviluppare, sotto forma di modelli predittivi quantitativi, nuovi paradigmi di ricerca. Proprio per questo, nello sviluppo di nuovi farmaci e, allo stesso tempo, per trovare nuove applicazioni per quelli già in commercio, l’intelligenza artificiale sta assumendo un potere decisionale sempre maggiore, specie nei casi in cui essa è sinergica all’intelligenza umana: l’obiettivo, neanche tanto nascosto, è generare attraverso la sola intelligenza artificiale “nuove entità chimiche” che abbiano tutte le proprietà desiderate, senza doversi più affidare alle costose procedure dell’HTS. Comunque, nonostante i traguardi raggiunti dalla scienza novecentesca, tanto nella comprensione della patogenesi, quanto nelle tecnologie dei medicinali, l’approvazione e l’immissione in commercio di un nuovo farmaco risulta essere ancora un processo con tempistiche lunghe e finanziariamente impegnativo, specialmente a causa dei costi derivanti dall’elevata percentuale di fallimenti che si rivelano duranti gli studi clinici.

Il crescente successo dell’intelligenza artificiale dipende proprio dal fatto che permette di ridurre i tempi normalmente richiesti per processare i dati e di progettare e identificare nuove molecole con costi molto più contenuti rispetto al passato. Ciò è possibile giacché uno dei principali settori di applicazione dell’intelligenza artificiale è quello della Ricerca e Sviluppo (R&S), alla cui base vi è la raccolta di una grande quantità di dati e la loro combinazione. Per sua natura, la R&S in campo farmaceutico è sempre stata caratterizzata da un approccio guidato dai dati sperimentali, il cui sviluppo è strettamente collegato ai progressi nella modellistica statistica e della biologia computazionale: ciò la rende una naturale area di applicazione dell’intelligenza artificiale .

La maggior parte delle aziende che operano nel campo delle biotecnologie ha attualmente acquisito una piena consapevolezza del valore dell’intelligenza artificiale come volano per una maggiore efficienza e produttività nella R&S, facendo uso dell’automazione intelligente applicata ai propri processi. Per esempio, alcune multinazionali farmaceutiche utilizzano strumenti basati sull’elaborazione del linguaggio naturale (Natural Language Processing) per automatizzare il monitoraggio della sicurezza dei propri farmaci in commercio, sostenendo l’attività di farmacovigilanza attraverso l’estrazione di informazioni e l’inferenza statistica dai report degli effetti avversi. il risultato è stato un miglioramento dell’accuratezza del 70% e una riduzione del 20% nelle tempistiche di elaborazione.



1 Cfr., Ramesh R., Munshi A., Panda S.K. 1992. “Polymerase chain reaction”. The National medical journal of India, maggio, 5 (3): pp. 115-119 (< http://archive.nmji.in/approval/archive/Volume-5/issue-3/review-article.pdf >); e Green M.R., Sambrook J. 2018. “The Basic Polymerase Chain Reaction (PCR)”. Cold Spring Harbor protocols, maggio 1; e Peirson S.N., Butler J.N. 2007. “Quantitative polymerase chain reaction”. Methods in molecular biology, 362: pp. 349-362.

2 Il DNA satellite consiste in sequenze altamente ripetute di DNA, che rappresentano gran parte dell’eterocromatina costitutiva. Negli eucarioti, al contrario dei procarioti, il DNA è impacchettato sotto forma di complesso nucleoproteico chiamato “cromatina”, che porta il messaggio dell’ereditarietà. Essa è localizzata nel nucleo ed è organizzata in molte entità separate, i cromosomi. Ci sono due tipi di eterocromatina, l’eterocromatina costitutiva e quella facoltativa, che differiscono, di poco, in base al DNA che esse contengono. La ricchezza in DNA satellite determina la permanente o reversibile natura dell’eterocromatina, i suoi polimorfismi e le sue proprietà di colorazione (cfr., Colapietro P., Beghini A. 2003. “Eterocromatina, dai cromosomi alle proteine”. Atlas of Genetics and Cytogenetics in Oncology and Haematology, in < http://atlasgeneticsoncology.org/Educ/HeterochromID30058IS.html >).

3 Cfr., Klug W.S., Spencer C.A. Op. cit., p. 623.

4 Una prima parte dei risultati di questa scoperta fu pubblicata in Gill P., Jeffreys A. J., Werrett D. J. 1985. “Forensic Application of DNA Fingerprints”. Nature, 318: p. 67-73. Un saggio divulgativo in lingua italiana che ripercorre le tappe di questa scoperta in modo puntuale e ben supportata da fonti bibliografiche, è Andreoli A. 2009. Identità alla prova: la controversa storia del test del DNA tra crimini misteri e battaglie legali. Milano: Sironi editori.

5 Appare opportuno distinguere i concetti di satellite, microsatellite e minisatellite. A questo proposito, occorre ricordare che le sequenze ripetute in tandem formano dei blocchi sui cromosomi e in base alle dimensioni dei blocchi stessi vengono suddivisi in sub-classi di DNA: megasatellite, satellite, minisatellite e microsatellite. Il DNA megasatellite è costituito da un monomero di ripetizione di grandi dimensioni, come per esempio il RS447. Il DNA satellite rappresenta, invece, una frazione consistente del genoma (dal dieci al venticinque per cento) e comprende un grande gruppo di blocchi di DNA ripetuto in tandem composto da singole unità ripetute più o meno complesse. Il DNA di questo tipo non è trascritto e costituisce la maggior parte dell’eterocromatina del genoma localizzata a livello del centromero (eterocromatina pericentrometrica). Il DNA minisatellite comprende il minisatellite ipervariale e il minisatellite telomerico, due tipi di DNA ripetuto in tandem di modeste dimensioni e disperso nel genoma nucleare. Infine, il DNA microsatellite (STR) corrisponde a sequenze ripetute, generalmente non codificati, costituite da corte unità di ripetizione in tandem. Il numero di ripetizioni nei polimorfismi STR può essere molto variabile tra individuo e individuo e ciò li rende marcatori particolarmente adatti per scopi identificativi (cfr., Aiello V., Rubini M. 2016. Atlante degli eteromorfismi cromosomici, Varazze (SV), PM edizioni: pp. 15 e 16).

6 Una interessante quanto celebre identificazione di interesse storico compiuta con il fingerprinting genetico è quella relativa alla famiglia dei Romanov. Nel 1991 le autorità russe riesumarono in una fossa poco profonda rinvenuta in un bosco di betulle alla periferia di Ekaterinburg (Sverdlovsk) nove scheletri supposti appartenere alla famiglia dell’ultimo Zar di Russia Nicola II. Non essendo certi che i reperti ossei ritrovati appartenessero alla nota dinastia russa, le ossa furono affidate per l’indagine genetica al patologo Victor Weedn che confermò la loro identità (cfr., Caramelli D. 2009. Antropologia molecolare. Manuale di base. Firenze: Firenze University Press: p. 39). Contestualmente, fu escluso che Anna Anderson fosse, come sosteneva, Anastasia Romonova, sopravvissuta all’esecuzione di tutta la famiglia nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1918. Con il tempo la Anderson si fece coinvolgere in infinite battaglie legali, dividendo il pubblico in sostenitori e detrattori. La fine della vicenda fu segnata dal DNA mitocondriale di Anna che, recuperato da una biopsia effettuata in occasione di un intervento all’intestino nel 1979, dimostrava che ella non poteva essere figlia dello Zar (cfr., Galeotti G. 2009. In cerca del padre: Storia dell’identità paterna in età contemporanea. Roma-Bari: Laterza, p. 21).

7 Il fingerprinting genetico è stato protagonista di una complessa vicenda internazionale. A seguito della moratoria internazionale del 1986 sul commercio dei cetacei che limitava la caccia solo a poche specie, nel 1994 venne utilizzata la tecnica del PCR per amplificare le sequenze di DNA mitocondriale estratto dalla carne di balena in vendita in alcuni negozi del Giappone, dove questo tipo di alimento è considerata una prelibatezza. Il fingerprinting del DNA rivelò che molti campioni di carne provenivano da megattere e balenottere, specie entrambe protette. Queste informazioni permisero alla dogana giapponese di rintracciare le fonti di importazione illegale di carne di balena e punire i colpevoli (cfr., Klug W.S., Spencer C.A. Op. cit., p. 736).

8 Cfr., Venter J.C. et al. 2001. “The sequence of the human genome”. Science, febbraio vol. 291, (< https://science.sciencemag.org/content/sci/291/5507/1304.full.pdf >): pp. 1304-1351.

9 Nel luglio 1980, Cline operò un trasferimento di rDNA nelle cellule del midollo osseo di due pazienti affette da beta-talassemia (β-talassemia). Non solo le due pazienti morirono, ma questo esperimento fu anche condotto senza rispettare le linee guida sulla terapia genica allora stabilite dal National Institute of Health e privo dell’approvazione dell’Institutional Review Board dell’Università della California di Los Angels (UCLA), dove era stata condotta la sua ricerca (cfr., Beutler E. 2001. “The Cline Affair”. Molecular Therapy, novembre, 4 (5): pp. 396-397).

10 Cfr., Aldridge S. Op. cit., pp. 200-201.

11 La clonazione di un essere vivente può avvenire in due modi distinti: dalla divisione dell’embrione durante le prime fasi dello sviluppo; oppure dalla riproduzione di un essere vivente, sfruttando una cellula somatica di un altro essere vivente senza che vi sia fecondazione. La prima tipologia di clonazione si consegue sia maniera naturale, come nel caso dei gemelli, sia maniera artificiale, come fu dimostrato il 13 ottobre del 1993 da Jerry L. Hall e da Robert J. Stillman, due scienziati della George Washington University. Hall e Stillman, infatti, furono i primi che riuscirono ad avere successo in un esperimento di clonazione, per separazione di blastomeri, di diciassette embrioni umani, ottenuto con la fecondazione in vitro che produsse quarantotto embrioni geneticamente identici (cfr., Hall, J.L., Engel, D., Gindoff, P.R., Motta, G.L., & Stillman, R.J. 1993. “Experimental cloning of human polyploid embryos using an artificial zona pellucida”. The American Fertility Society, Poster Sessions, Abstract O-001, p. 81). La seconda tipologia di clonazione, che avrà come epilogo la creazione della pecora Dolly, è un processo del tutto artificiale ed ebbe risultati positivi già nel 1958 quando John Gurdon clonò una rana usando nuclei intatti dalle cellule somatiche (cellule intestinali) di un girino di Xenopus (cfr., Gurdon, J., Elsdale, T. & Fischberg, M. 1958. “Sexually Mature Individuals of Xenopus laevis from the Transplantation of Single Somatic Nuclei”. Nature, 182: pp. 64-65). A quel tempo non era tuttavia possibile dimostrare che i nuclei trapiantati derivassero da una cellula completamente differenziata, per cui fu necessario aspettare il 1975 per averne conferma scientifica da un gruppo di ricerca che lavorava presso l’Istituto di Immunologia di Basilea in Svizzera (cfr., Wabl M.R., Brun R.B., Du Pasquier L. 1975. “Lymphocytes of the toad Xenopus laevis have the gene set for promoting tadpole development’’. Science, dicembre, 26, 190 (4221): pp. 1310-1312). Successivamente, nel 1981 Mario Capecchi, Martin Evans Oliver Smithies scoprirono il “gene targeting” (in italiano “bersagliamento di un gene”) – una tecnica biotecnologica che attraverso la ricombinazione omologa permetteva di modificare un gene, cancellandolo, rimuovendone esoni o introducendovi mutazioni puntiformi – e progettarono un topo knockout, ossia un topo geneticamente modificato in cui è soppressa, a scopo di studio, l’espressione di un determinato gene (cfr., Evans M., Kaufman, M. 1981. “Establishment in culture of pluripotential cells from mouse embryos”. Nature, 292: pp. 154-156; e Koller B.H., Hagemann L.J., Doetschman T., Hagaman J.R., Huang S., Williams P.J., First N.L., Maeda N., Smithies O. 1989. “Germ-line transmission of a planned alteration made in a hypoxanthine phosphoribosyltransferase gene by homologous recombination in embryonic stem cells”. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, novembre, 86 (22): pp. 8927-8931). Evans dimostrò che alcune linee cellulari coltivate in vitro di embrioni murini, dette “cellule staminali embrionali”, inoculate nella blastocisti di un topo, contribuivano alla formazione di tutti i tessuti del nuovo organismo. Solo molti anni dopo, l’utilizzazione delle cellule staminali embrionali sia murine per la formazione di topi knockout, sia umane per la formazione di cellule staminali (la cosiddetta clonazione terapeutica), si è rivelata di notevole importanza (cfr., Robertson E., Bradley A., Kuehn M., Evans M. 1986. “Germ-line transmission of genes introduced into cultured pluripotential cells by retroviral vector”. Nature, ottobre, 2-8, 323 (6087): pp. 445-448).

12 Cfr., Campbell K., McWhir J., Ritchie W., Wilmut I. 1996. “Sheep cloned by nuclear transfer from a cultured cell line”. Nature, 380: pp. 64-66.

13 Cfr., Stazi A. 2012. Innovazioni biotecnologiche e brevettabilità del vivente: Questioni giuridiche e profili biotici nei modelli statunitensi ed europeo, Torino: Giappichelli, p. 93.

14 Cfr., Collins F.S., Fink L. 1995. “The Human Genome Project”. Alcol Health Res World, 19 (3): pp. 190-195.

15 Cfr., Menon M.G.K., Tandon P.N., Agarwal S.S., Sharma V.P. 1999. Human Genome Research: Emerging Ethical, Legal, Social, and Economic Issues, New Delhi: Allied, p. 16.

16 Cfr., Dulbecco R. 1986. “A turning point in cancer research: sequencing the human genome”. Science, marzo 7, 231 (4742): pp. 1055-1056 (< https://science.sciencemag.org/content/231/4742/1055.long >).

17 Il sequenziamento è un processo che permette di stabilire l’esatta sequenza delle basi nell’ambito di un filamento di DNA o degli aminoacidi di una proteina. La storia del sequenziamento ha avuto origine nel 1968 quando, per la prima volta, è stata riportata la sequenza di dieci basi consecutive di DNA, benché le prime metodologie per ottenere sequenze di dimensioni maggiori siano state messe a punto solo diversi anni dopo, prima con Allan Maxam e Walter Gilbert nel 1973, poi da Frederick Sange nel 1975. Nel 1977 fu sequenziato il primo gene umano e da allora questa metodica ha avuto uno sviluppo esponenziale in termini sia di strategia, sia di tecnologia, proprio con l’invenzione dei sequenziatori automatici (cfr., Debbia E.A., Microbiologia Clinica, Bologna: Esculapio, p. 44).

18 Cfr., Davis K. 2002. Il codice della vita. Genoma la storia e il futuro di una grande scoperta, Milano: Mondadori, pp. 321-335.

19 Cfr., Klug W.S., Spencer C.A. Op. cit., p. 8; Venter J.C. et al., 2001. Op. cit. In seguito al moltiplicarsi dei progetti genoma e al fatto che nuove sequenze genomiche venivano inserite nelle banche dati, è nata una nuova disciplina chiamata genomica (lo studio dei genomi), che utilizza le informazioni sulle sequenze nucleotidiche contenute nei database per studiare la struttura, la funziona e l’evoluzione dei geni e dei genomi (cfr., Klug W.S., Spencer C.A. Op. cit., p. 8).

20 È significativo ricordare che il giorno successivo alla conferenza di Bill Clinton, le quotazioni di numerose società biotecnologiche crollarono, trascinando verso il basso l’indice dei titoli tecnologici Nasdaq, testimoniando come politica e finanza, già allora, erano oramai inestricabilmente collegate e in grado di influenzarsi reciprocamente (cfr., Bucchi M. 2000. “Il Progetto Genoma e la scienza che cambia”. Il Mulino, Rivista bimestrale di cultura e di politica, fascicolo 6, novembre-dicembre, pp. 1031-1040, si veda in particolare p. 1031).

21 In particolare, Collins e il consorzio pubblico International Human Genome Sequencing Consortium pubblicarono “Initial Sequencing and Analyisis of Human Genome” su Nature, 409, 2001, pp. 860-921. Mentre Venter e gli altri coinvolti nel lavoro della Celera Genomics pubblicarono “The Sequence of the Human Genoma”, su Science, 291, 2001, pp. 1304-1351.

22 Cfr., Serra C. 2000. Il progetto genoma Umano. Napoli: Cuen.

23 Cfr., Mack, G. 2004. “Can complexity be commercialized?”. Nature biotechnology, ottobre, 22 (10), pp. 1223-1229 (< https://www.nature.com/articles/nbt1004-1223 >).

24 La biologia dei sistemi si è strutturata sostanzialmente intorno a due tipi di percorsi di ricerca: quello che procede dall’alto verso il basso (top-down), ossia a partire dai sistemi principali (come per esempio, quello circolatorio, immunitario o metabolico) per arrivare fino ai tessuti, alle cellule, alle proteine e ai geni pertinenti; e quello che procede dal basso verso l’alto (bottom-up), ossia dalla valutazione di migliaia di geni e proteine al fine di combinarli in una rappresentazione funzionale delle cellule e dei sistemi cellulari (cfr., ibidem).

25 Cfr., ibidem.

26 Il punto di partenza per la scoperta di una nuova molecola quale target farmacologico è la sua identificazione quale biomolecola coinvolta nella patogenesi o progressione della malattia. Il target può essere, per esempio, un enzima, un recettore, un canale ionico o una proteina transporter, fortemente correlata alla malattia come importante nodo di riferimento funzionale (cfr., Gashaw I., Ellinghaus P., Sommer A., Asadullah K. 2012. “What makes a good drug target?”. Drug Disco very Today. Febbraio, 17 (S24-30): pp. 524-530). All’identificazione di un target biologico è correlato anche quello di un biomarker, ossia un indicatore misurabile della patologia da analizzare che permette di verificare l’efficacia delle molecole prescelte come farmaci (cfr., Ganellin C., Jefferis R., Roberts S. 2013. Introduction to Biological and Small Molecule Drug Research and Developmet, Amsterdam: Elsevier, pp. 122-125) Individuare il target biologico giusto è un aspetto molto importante poiché evita di perdere tempo e risorse, ed è di fatto il punto di partenza per avviare il processo di Drug Discovery vero e proprio che porta a selezionare la molecola adatta a partire da un gran numero di composti.

27 Per il tema della “drug discovery” mi permetto di rinviare a Novellino E., Fuccella L.M., Barone D., Iadevaia V., Colonna R., Capone G., Cammarata S., Piscitelli A., Menditto E., Orlando V., Russo V., Putignano D., Vinci P., Guerriero F., Bocchi I., Calderazzo V., Romano S., Bonato S., De Tomasi F. 2019. Il farmaco: ricerca, sviluppo e applicazione in terapia, Napoli: FedOAPress, pp. 26-28.

28 Cfr., Fumagalli G., Clementi F. Op. cit., p. 151.

29 Cfr., Darcy A.M., Louie A.K., Roberts L.W. 2016. “Machine Learning and the Profession of Medicine”. JAMA, 315 (6): pp. 551-552.

30 Le “small molecules” sono, come indica il loro stesso nome, dei composti “piccoli”, con un peso molecolare generalmente inferiore ai 900 Dalton (Da). Si tratta principalmente di molecole organiche sintetizzate chimicamente che vengono usate, ormai da decenni, a scopi terapeutici. Un tipico esempio di questa classe di farmaci è l’acido acetilsalicilico, un antinfiammatorio con un peso molecolare ridotto che è stato sintetizzato industrialmente fin dalla metà del XIX secolo. (cfr., Miner J., Hoffhines A. 2007. “The Discovery of Aspirin’s Antithrombotic Effects”. Texas Heart Institute journal, 34 (2): pp. 179-186). Le small molecules per le dimensioni e la natura organica che possiedono, sono capaci di agire sull’organismo a livello sia extracellulare, sia intracellulare, e si caratterizzano per un’azione terapeutica diretta principalmente verso enzimi e recettori in qualità di inibitori enzimatici, agonisti o antagonisti dei recettori (cfr., Ganellin C., Jefferis R., Roberts S. 2013. Op. cit, p. 20).

31 Cfr., Mignani S., Huber S., Tomás H., Rodrigues J., Majoral J.P. 2016. “Why and how have drug discovery strategies in pharma changed? What are the new mindsets?”. Drug discovery today, 21 (2): pp. 239-249; Jordan A.M. 2018. “Artificial intelligence in drug design – the storm before the calm?”. American Chemical Society medicinal chemistry letters Medicinal chemistry letters, 9 (12): pp. 1150-1152.

32 Cfr., Awad M., Khanna R. 2015. Efficient Learning Machines.Theories, Concepts, and Applications for Engineers and System Designers, Apress: Berkeley, pp. 1-18 (< https://link.springer.com/content/pdf/10.1007%2F978-1-4302-5990-9.pdf >).

33 Cfr., Schneider P., Walters W.P., Plowright A.T. et al. 2020. “Rethinking drug design in the artificial intelligence era”. Nature reviews. Drug discovery, maggio, 19 (5): pp. 353-364.

34 Si è qui scelto volutamente un’espressione specifica che traduce in modo letterale “New Chemical Entity” (NCE), e si riferisce, secondo la Food and Drug Administration degli Stati Uniti d’America, a un farmaco che non contiene parti attive approvate dalla stessa FDA (cfr., U.S. Department of Health and Human Services Food and Drug Administration Center for Drug Evaluation and Research (CDER). 2014. New Chemical Entity Exclusivity Determinations for Certain FixedCombination Drug Products Guidance for Industry in < https://www.fda.gov/files/drugs/published/New-Chemical-Entity-Exclusivity-Determinations-for-Certain-Fixed-Combination-Drug-Products.pdf >).

35 Cfr., Schneider P., Walters W.P., Plowright A.T. Op. cit.

36 Cfr., Smietana K., Siatkowski M., Møller M. 2016. “Trends in clinical success rates”. Nature reviews drug discovery, 15: pp. 379-380.

37 Cfr., Philipp M.P., Valdarnini A., D’Antonio A. 2018. “Verso terapie intelligence-driven”, in “Intelligenza Applicata Tecnologie e ingegno umano per potenziare il business”. Harvard business review Italia, 7/8, Milano: pp. 17-22 (< https://www.accenture.com/_acnmedia/pdf-81/accenture-looking-forward-pdf.pdf >), e, in particolare, si veda la p. 17.

38 Il Natural Language Processing (NLP), in italiano “Elaborazione del Linguaggio Naturale”, è il processo di elaborazione automatica da parte di un elaboratore elettronico di informazioni scritte o pronunciate in una lingua naturale, ossia il linguaggio solitamente usato nella comunicazione fra individui di un gruppo sociale che lo condivide. L’NLP è un campo molto vasto con molteplici applicazioni potenziali, fra le quali la traduzione da un linguaggio a un altro, il recupero delle informazioni da archivi, l’interazione uomo-macchina e la dettatura automatica (cfr., Nilsson N.J. 2002. Intelligenza artificiale, Milano: Apogeo, p. 458).

39 Cfr., Smietana K., Siatkowski M., Møller M. Op. cit., p. 19.

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