Influenza del sesso e differenze di genere nella Covid-19: un’analisi dei recenti dati di letteratura

Antonio Consiglio, Francesca Scicchitano, Mariarosanna De Fina, Daniela Scala

Area SIFO Informazione Scientifica, Counselling e Farmacia Narrativa

INTRODUZIONE

Una serie crescente di evidenze in letteratura scientifica sta dimostrando in modo sempre più concreto il sussistere di differenze negli outcomes clinici della Covid-19 (CoronaVirus Disease, malattia da coronavirus) tra pazienti di sesso femminile e pazienti di sesso maschile.1,2,3 Anche i dati epidemiologici emersi dagli studi statistici effettuati per le precedenti epidemie da coronavirus, la Sars-CoV (CoronaVirus-Severe Acute Respiratory Syndrome, sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus) del 2002 e la Mers (Middle Eastern Respiratory Syndrome Coronavirus, coronavirus correlato alla sindrome respiratoria del Medio Oriente) del 2012, hanno messo in luce differenze significative sesso-correlate nella manifestazione della sintomatologia e nel decorso clinico dell’infezione: l’esempio più eclatante riguarda il caso degli uomini, colpiti in maniera certamente più consistente e in forma più severa rispetto alle donne.4,5 Il trend epidemiologico si conferma tale anche in relazione alla Covid-19, come suggeriscono dati di letteratura recenti, dai quali si rileva la presenza di un più alto tasso di severità e di mortalità della malattia nell’uomo, accompagnato da una maggiore frequenza di ricoveri, rispetto alla donna, nelle ICU (Intensive Care Units, unità operativa di terapia intensiva), oltre che da una frequenza tre volte superiore nell’insorgenza di polmoniti in forma severa.6 Le differenze nella manifestazione della malattia da Sars-CoV-2 intercorrenti tra sesso femminile e maschile, inoltre, si presentano in forma più o meno accentuata a seconda del fattore età: a suggerirlo, in particolare, uno studio comprensivo di 227 mila casi confermati di Covid-19 raggruppati da quattro diversi Paesi (Italia, Germania, Spagna e Svizzera) da cui è emerso che la frequenza di eventi fatali tra i due sessi è più marcata nella fascia di età 50-59 anni, mentre decresce progressivamente con l’avanzare dell’età,3 arrivando a livelli trascurabili dagli 80 anni in su.7

Sembra che la disparità di grado e di intensità con cui la Covid-19 si manifesta clinicamente, sia in termini di morbilità che di mortalità, nelle donne e negli uomini riponga le proprie basi in una combinazione di fattori: da una parte ritroviamo fattori di tipo prettamente biologico e direttamente correlabili al sesso di chi contrae l’infezione, riconducibili a differenze genomiche a livello cromosomiale, di tipo anatomico (i.e. in relazione agli organi riproduttivi), o ancora di tipo biochimico-biometabolico (i.e. ormono-sessuali dipendenti); dall’altra, invece, fattori genere-specifici, ascrivibili più che altro a differenze che intercorrono tra il genere femminile e quello maschile e, nello specifico, passando dal macro (la società) al meso (la comunità) e al micro (la persona), originano da contesti storico-culturali, prospettive socio-comportamentali e sfere psico-attitudinali tra loro ben distinte.3 A titolo esemplificativo, gli uomini, rispetto alle donne, presentano una maggiore tendenza ad assumere stili di vita poco salutari, come ad esempio il consumo di alcolici e il fumo8,9 che comportano a loro volta l’instaurarsi di importanti co-morbilità, come ad esempio ipertensione, patologie cardiovascolari e COPD (chronic obstructive pulmonary disease, malattia polmonare cronico-ostruttiva), associate molto spesso ad una prognosi infausta se contestuali all’insorgenza di un’infezione da Sars-CoV-210,11, specialmente nel sesso maschile.6

Lo sforzo di clinici e ricercatori, già incentrato in epoca pre-CoVid-19 sullo studio delle tematiche correlate alla medicina di genere, è stato ulteriormente intensificato durante l’intero periodo dell’emergenza sanitaria globale, emergenza che ha stravolto le dinamiche sociali e il tessuto comunitario come mai in precedenza. Mentre la società si ritrova a fronteggiare la pandemia, la ricerca nel campo della medicina di genere ha, pertanto, mirato al riconoscimento e alla profilazione delle differenze tra uomini, donne e persone con identità “non-binarie”, di punti chiave, non solo per conoscere nel profondo gli effetti di tale crisi sanitaria su ciascun individuo, ma anche per identificare e stilare dei protocolli clinici imparziali, e per quanto possibile non suscettibili di bias genere-dipendenti.12

Global Health 50/50, un’iniziativa indipendente basata sulle evidenze e promotrice dell’uguaglianza di genere nel vasto settore della salute globale, ha elaborato una panoramica di dati ad accesso libero (open- access) e “disaggregati per sesso” (sex-disaggregated data), ovvero collezionati ed analizzati separatamente per la popolazione femminile e per quella maschile, ricavati da fonti nazionali ufficiali attraverso il Covid-19 Data Tracker (Figura 1).




Quest’ultimo rappresenta il più vasto database mondiale di dati disaggregati per sesso relativi a tutte le procedure sanitarie legate alla Covid-19, ovvero vaccinazioni, test diagnostici, casi confermati, ospedalizzazioni, ricoveri in ICU e decessi. I dati vengono costantemente raccolti dai siti ufficiali nazionali dei Ministeri della Salute, dalle statistiche nazionali, dai registri di morte e dagli account dei social media governativi. Mentre l’infezione da Sars-CoV-2 si estendeva progressivamente su scala internazionale, l’Update Report del Maggio 2021 ha tracciato la disponibilità di dati provenienti da 198 Paesi, che insieme hanno incorporato il 99,9% (quasi la totalità) dei casi confermati di Covid-19 e dei decessi registrati a livello globale: nello specifico, da 101 Paesi sui 198 presi in esame (51% del totale) sono stati registrati dati disaggregati per sesso relativi ai casi di infezione, mentre da 73 Paesi (37% del totale) dati disaggregati per sesso relativi ai decessi per Covid-19. Da un’analisi di tutte le informazioni rese disponibili, un numero leggermente maggiore di donne, rispetto agli uomini, ha ricevuto la vaccinazione anti Covid-19, e più donne che uomini hanno effettuato test per la diagnosi dell’infezione da Sars-CoV-2. Per entrambi i sessi sono stati confermati casi di contagio in misura pressoché sovrapponibile ma, anche in questo caso, come quanto enunciato in precedenza, il gap si accresce durante il decorso della malattia, dato che gli uomini presentano un più alto tasso di ospedalizzazioni (53%), di ricoveri in ICU (64%) e di decessi (57%) rispetto alle donne.13

Tuttavia, i dati relativi alla Covid-19 disaggregati per sesso non si interfacciano con l’identità di genere, dal momento che, ad esempio, si rileva una carenza di informazioni relativamente all’impatto socio-sanitario della malattia sulla popolazione transgender e “non-binaria”. La scarsità di dati si ravvisa, purtroppo, anche in riferimento alle strategie terapeutiche e profilattiche anti-CoVid-19 genere-specifiche, il che comporta un’appropriatezza parziale dei trattamenti, oltre che il mancato raggiungimento di una garanzia di precisione a cui la scienza medica dovrebbe sempre tendere.12

Difformità biochimiche e bio-molecolari

Il ruolo dell’ACE-2 (Enzima 2 di conversione dell’Angiotensina - Angiotensin Converting Enzyme 2)

Sono state pubblicate diverse revisioni scientifiche che, sulla base di evidenze precliniche, hanno sottolineato il potenziale ruolo chiave del RAAS (Renin-Angiotensin System, Sistema Renina-Angiotensina Aldosterone) nella patogenesi della malattia da Sars-CoV-2.

Il RAAS è un complesso sistema ormonale che svolge un ruolo fondamentale nell’omeostasi cardiovascolare. L’attivazione ormonale inizia con la produzione di renina da parte delle cellule iuxtaglomerulari renali. La renina converte l’angiotensinogeno, un’alfa-2-globulina prodotta a livello epatico, in AT-1 (Angiotensin-1, angiotensina 1), un decapeptide biologicamente inattivo; quest’ultima viene successivamente trasformata nella forma attiva AT-2 (Angiotensin-2, angiotensina 2) dall’ACE (Angiotensin-Converting Enzyme, enzima di conversione dell’angiotensina), una dicarbossipeptidasi presente in molti tessuti e particolarmente rappresentata sulla superficie endoteliale dei vasi polmonari. AT-2 agisce a livello tissutale attraverso due classi di recettori, AT-1R e AT-2R, che mediano effetti opposti.

Studi genetici hanno identificato la presenza di enzimi omologhi ad ACE, tra cui ACE-2 (enzima 2 di conversione dell’angiotensina), un regolare chiave negativo del RAAS, che esplica su di esso un effetto di antagonismo e controbilancia le attività degli ACEs.14 Analogamente all’enzima ACE, anche ACE-2 è una proteina transmembrana con un sito catalitico extracellulare. La sua azione biologica si esplica mediante la conversione di AT-2 in angiotensina 1-7, in seguito al clivaggio di aminoacidi dall’estremità carbossi-terminale di ACE-2; l’angiotensina 1-7 promuove il rilascio di peptidi vasoattivi come NO (nitro-oxide, ossido nitrico), bradichinina e PGE-2 (Prostaglandina E2) attraverso il recettore MAS (Mas receptor, recettore per l’angiotensina 1-7),15 esplicando effetti vasodilatatori, antiinfiammatorii e protettivi nei confronti del sistema cardio-vascolare, derivanti appunto dalla riduzione dei livelli di AT-2. L’attività enzimatica di ACE-2 sembra ridursi con l’invecchiamento, oltre che essere maggiormente pronunciata nei soggetti di sesso femminile.16,17 Studi molecolari e sperimentali hanno dimostrato che il SARS-CoV-2, così come il SARS-CoV, mediante le subunità S1/S2 delle glicoproteine dei suoi spikes, attivati da TMPRSS2 (transmembrane protease serine-2, serina proteasi transmembrana-2),14 è in grado di legarsi al dominio extracellulare dell’ACE-2.18 La successiva endocitosi dell’ACE-2 con la particella virale ad essa legata permette l’ingresso del virus all’interno della cellula, con conseguente riduzione della quantità di molecole di ACE-2 espresse sulla superficie cellulare (Figura 2).




Modelli animali e reperti istopatologici umani hanno dimostrato che SARS-CoV-2 può limitare l’attività della via metabolica mediata da ACE-2 in pneumociti e cardiomiociti, favorendo pertanto l’innesco di processi infiammatori a livello polmonare e miocardico. È da sottolineare, inoltre, come il sistema ACE/ACE-2 sembri avere un ruolo importante nella mediazione del danno polmonare nella ARDS (Acute respiratory distress syndrome, Sindrome da Distress Respiratorio Acuto). Da uno studio sperimentale è emerso come l’attività dell’ACE-2 e la stimolazione di AT-2R proteggano dal danno polmonare acuto indotto da sepsi o aspirazione di acidi (come i succhi gastrici) e, viceversa, come il danno polmonare acuto induca una significativa down-regulation dell’ACE-2.19 In aggiunta, in un altro studio su modello animale (ratto) è stato osservato che l’ARDS era associata ad un aumento dell’attività di ACE e ad una riduzione di ACE-2, e che la somministrazione di una forma ciclica proteasi-resistente di angiotensina 1-7 (prodotto dell’attività di ACE-2 su AT-2) causava una riduzione della risposta infiammatoria, accompagnata da un miglioramento della funzionalità polmonare, rilevabile da un aumento dell’ossigenazione.20

Complessivamente, la down-regulation di ACE-2, osservata in generale in modelli animali con ARDS e con infezione da SARS-CoV e da SARS-CoV-2, porta ad uno sbilanciamento dell’attività ACE/ACE-2, con conseguente accumulo di AT-2 che, attraverso AT-1R, incrementa la permeabilità vascolare e favorisce il danno tessutale.

Riguardo alle differenze di genere che si manifestano nel caso della Covid-19, le evidenze raccolte fino ad oggi evidenziano esplicitamente che esistono difformità significative nell’insorgenza, nelle manifestazioni cliniche, nelle risposte ai trattamenti e negli esiti di malattia tra donne e uomini. Tali difformità potrebbero essere collegate ad esempio ai seguenti fattori:

maggiore tendenza degli uomini al tabagismo, riconosciuto come fattore di rischio non secondario per una maggiore probabilità di contrarre l’infezione e sviluppare un quadro clinico più grave della malattia;

spiccata abitudine delle donne a dedicare uno spazio significativo della propria quotidianità all’igiene personale;

risposta immunitaria, sia innata che adattativa, più pronta ed efficace nelle donne che negli uomini.

Non bisogna inoltre trascurare il ruolo di primaria importanza che giocano i fattori ormonali e genetici in entrambi i sessi, fattori dai quali dipende la diversa probabilità di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2 tra donne e uomini. Nelle donne in età fertile, ad esempio, gli estrogeni sono in grado di aumentare la presenza del recettore di ACE-2, facendo sì che questo enzima, anche dopo l’infezione, riesca a svolgere la sua funzione di protezione, in particolare nei confronti del tessuto polmonare. Viceversa, pare che gli ormoni androgeni svolgano un ruolo opposto nell’influenzare l’espressione di enzimi cellulari coinvolti nelle fasi che seguono l’interazione del virus con il recettore, favorendo, di fatto, il progredire dei processi infettivi a livello pneumocitario.

Partendo dall’evidenza scientifica secondo cui il locus del gene ACE-2 si trova sul cromosoma X, il lavoro di un’equipe di ricercatori, ha suggerito che la presenza di due alleli dei due cromosomi X nella donna possa esercitare un effetto protettivo che nell’uomo non si evidenzia.21 In particolare, nelle cellule femminili, affinché venga inibita la ridondante espressione dei prodotti dei geni presenti in doppia copia sui cromosomi X, si verifica una fisiologica inattivazione casuale di uno dei due cromosomi. Tuttavia, vi sono porzioni cromosomiche che sfuggono ai meccanismi di inattivazione: come diretta conseguenza, si verifica che i geni presenti in questi loci vengano sovraespressi nella donna; ne deriva un aumento della codifica di ACE-2, la cui presenza nel tessuto polmonare femminile risulta sensibilmente più pronunciata rispetto a quella rilevabile nel tessuto polmonare maschile.21,22

Inoltre, analisi sul polimorfismo di ACE-2 indicano che non ci sono differenze significative legate al sesso; pertanto, mentre potrebbe essere ovvia la disparità di genere nella Covid-19, i diversi risvolti che quest’ultima potrebbe dimostrare in relazione a ciascuno dei due sessi potrebbero con buone probabilità non essere associate ai polimorfismi a singolo nucleotide.22

Studi su modelli animali indicano che l’espressione di ACE-2 nei polmoni di ratto si riduce significativamente in entrambi i sessi con l’invecchiamento; tuttavia, la riduzione è maggiormente pronunciata nei ratti maschi anziani (78%) rispetto alle femmine (67%).16 Ciò è in parte legato al calo del livello di ormoni sessuali che si accompagna fisiologicamente col processo di invecchiamento dell’organismo umano. Livelli di ACE-2 più bassi del normale sono stati riscontrati anche in individui affetti da malattie croniche.23 In accordo ai dati sopra evidenziati, il soggetto con espressione di ACE-2 più contenuta sarebbe pertanto un maschio più anziano con comorbilità. In aggiunta, l’infezione da Sars-CoV-2 comporterebbe un ulteriore calo dei livelli di ACE-2 già di per sé depressi, e potrebbe in parte spiegare il maggior peso degli indici di morbilità e di mortalità, come si evince dal più alto tasso di ricoveri in terapia intensiva e di decessi per Covid-19 in tale casistica di pazienti24.

Un altro punto da non sottovalutare sta nel monitoraggio dell’eventuale modifica nell’espressione di ACE-2 in seguito ad infezione da Sars-CoV-2, oltre che della variabilità delle risposte biochimiche tra i sessi.

Risulterà necessario, nel tempo, effettuare studi specifici, anche retrospettivi, volti a valutare il ruolo degli ormoni sessuali nelle differenze riscontrate tra i sessi durante questa pandemia (o, più nello specifico, il ruolo della terapia ormonale sostitutiva in donne colpite da Covid-19), e ad approfondire il ruolo dei geni che sfuggono all’inattivazione di uno dei due cromosomi X nelle cellule femminili e dei loro regolatori, anche nel tentativo di identificare determinanti patogenetici sesso-specifici di progressione della malattia indotta da Sars-CoV-2.

Il ruolo degli ormoni sessuali e la risposta immunitaria

Le differenze basate sul sesso negli esiti della Covid-19 sono mediate dalla risposta immunitaria. Il sesso femminile sviluppa una risposta immunitaria più forte a una varietà di infezioni, probabilmente a causa dell’influenza delle differenze genetiche e ormonali sul sistema immunitario.25 Sebbene le femmine tendano in generale a sperimentare una malattia meno grave in risposta all’infezione virale rispetto ai maschi, si ritiene che tali infezioni contribuiscano a tassi più elevati di malattie autoimmuni osservate proprio nella popolazione femminile (Figura 3).26




(I simboli più e meno contrassegnano rispettivamente attivazione e inibizione. ACE2= enzima di conversione dell’angiotensina 2; ACTH = ormone adrenocorticotropo; ADH = ormone antidiuretico; CRH = ormone di rilascio della corticotropina; DPP4=dipeptidil peptidasi-4; TMPRSS2=proteasi transmembrana serina sottotipo 2.)

Il cromosoma X codifica diversi geni coinvolti nella funzione immunitaria innata e adattativa. Questi ultimi includono recettori di riconoscimento del pattern (Pattern Recognition Receptor, PRR) come il recettore toll-like-7 (Toll-like Receptor-7, TLR-7) e TLR-8, e la chinasi associata al recettore dell’interleuchina 1 (Interleukin 1 Receptor Associated Kinase 1, IRAK-1).26 Le femmine presentano due copie di questi geni immunitari, pertanto nei loro fenotipi c’è sia ridondanza che eterogeneità.28 I maschi, invece, che presentano un solo cromosoma X, dispongono del 5% in meno di loci eterozigoti rispetto alle femmine: si ipotizza, pertanto, che la mancanza di loci eterozigoti aumenti il rischio di infezione virale e batterica determinando un aumento della mortalità.29 Il sesso femminile è inoltre caratterizzato da una maggiore plasticità nella risposta immunitaria a causa del mosaicismo cellulare. L’inattivazione dell’X porta, in alcuni tessuti, all’espressione del cromosoma X materno mentre, in altri, all’espressione del cromosoma X paterno, secondo un pattern tipicamente definito “a mosaico”.30,31 Ciò comporta risposte tessuto-specifiche, limitate a singoli organi, piuttosto che una risposta infiammatoria generalizzata, più frequentemente rilevabile nei maschi.

Molteplici elementi della risposta immunitaria all’infezione virale variano in base al sesso. TLR-7, un recettore endosomiale espresso sui linfociti dendritici e B, riconosce le infezioni virali e innesca una risposta all’interferone (IFN) di tipo I.32 TLR-7 mostra un’inattivazione incompleta ed è trascritto su entrambi i cromosomi X.33 Livelli più elevati di espressione di TLR-7 nel sesso femminile rafforzano la risposta immunitaria e probabilmente forniscono un vantaggio in risposta alle infezioni virali, inclusa quella causata da Sars-CoV-2. Un caso di studio preliminare di giovani pazienti maschi affetti da Covid-19 ha identificato varianti di perdita di funzione di TLR-7 associate a una grave malattia clinica.34 È stata inoltre osservata una robusta attivazione delle cellule T e una risposta IFN-correlata dopo l’attivazione di TLR.7 nella popolazione femminile, che probabilmente contribuisce ad una prognosi migliore.31

Sebbene la linfopenia a cellule T sia stata osservata in pazienti affetti da Covid-19 di ambedue i sessi, le femmine mostrano una risposta mediata dalle cellule T più marcata, in particolare in relazione alle cellule T CD8 +.35 Una scarsa risposta dei linfociti T è anche correlata all’età, ed è associata ad esiti peggiori nei pazienti di sesso maschile.35 Nei pazienti con malattia grave, i livelli di anticorpi protettivi dell’immunoglobulina G (IgG) sono più elevati nelle pazienti di sesso femminile rispetto ai pazienti di sesso maschile con infezione da Sars-CoV-2 e possono contribuire a migliorare i risultati clinici.36 I livelli di Sars-CoV-2 IgG aumentano e raggiungono il picco più rapidamente nei pazienti di sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile, coerentemente con una risposta anticorpale lenta e un recupero prolungato dall’infezione che si verifica nei maschi.37 Titoli di IgG più elevati si osservano anche nel plasma convalescente di donatori maschi, probabilmente riflettendo una malattia più grave con conseguente maggiore produzione di anticorpi.38,39 È interessante notare come lo stato di sieroconversione sia associato a una fisiopatologia sottostante distinta in Covid-19 con bassi titoli anticorpali associati a biomarcatori infiammatori, sebbene questi risultati non siano stati stratificati per sesso.40

Il testosterone ha effetti soppressivi sulla funzione immunitaria, mentre gli estrogeni possono avere effetti positivi o negativi, a seconda del livello con cui sono espressi.41 Per i maschi, i livelli di testosterone rimangono stabili fino a 70 anni di età; tuttavia, nelle donne, i livelli di estrogeni fluttuano durante il ciclo mestruale e diminuiscono dopo la menopausa. I livelli di estrogeni, alti o bassi, hanno effetti variabili sulla risposta immunitaria: livelli più elevati di estrogeni inibiscono la risposta immunitaria innata pro-infiammatoria, migliorano il T-helper 2 e la risposta immunitaria umorale, ed esercitano effetti protettivi sulla funzione delle cellule endoteliali.42 Tuttavia, a basse dosi, gli estrogeni promuovono risposte pro-infiammatorie, inclusa una maggiore produzione di citochine pro-infiammatorie e una maggiore risposta immunitaria cellulo-mediata. Bassi livelli di estrogeni inducono la differenziazione dei monociti in cellule dendritiche infiammatorie, aumentano la produzione di IL-4 (interleuchina 4) e IFNα (interferone alfa), promuovendo il T-helper 1 e la risposta immunitaria cellulo-mediata.31,41,42 Queste modificazioni immunitarie nel corso della vita aiutano a dettare la forza della risposta infiammatoria, e influenzano la probabilità di progressione verso esiti clinici gravi per i pazienti affetti da Covid-19, con numerose differenze di sesso documentate. Non sono stati ancora pubblicati dati sulle differenze negli esiti basati sulla tempistica dell’infezione in relazione al ciclo mestruale.

Bassi livelli di testosterone sono correlati alla gravità della Covid-19 nei maschi.43,44 Il testosterone sopprime la produzione di citochine pro-infiammatorie e facilita la differenziazione dei linfociti T regolatori che agiscono per sopprimere la risposta immunitaria. I maschi con insufficienza di testosterone, come osservato nei pazienti anziani e in comorbidità, sono predisposti a una risposta infiammatoria sistemica più elevata.45,46 Bassi livelli di testosterone sono associati a un generale aumento della mortalità correlata ad eventi cardiovascolari, e determinano un aumento del rischio cardiovascolare nei maschi con Covid-19. Il testosterone, inoltre, gioca un ruolo fondamentale nell’omeostasi piastrinica e coagulativa: i maschi con bassi livelli di testosterone possono pertanto essere predisposti ad eventi tromboembolici Covid-19 correlati.47 La carenza di testosterone può anche aumentare l’espressione del recettore di ACE-2, facilitando così l’ingresso di Sars-CoV-2 nelle cellule ospiti e rendendo maggiormente consistente, di conseguenza, il danno polmonare e l’insufficienza respiratoria.31,47,48 Questi effetti sono più pronunciati nei maschi obesi, poiché i recettori ACE-2 sono espressi nel tessuto adiposo, che facilita una risposta sistemica ancora maggiore.49-52

CONCLUSIONI

Una situazione ad andamento pandemico-epidemico come quella attualmente in corso, caratterizzata da un grado di contagiosità dell’agente virale tendenzialmente spiccato, presenta forti probabilità di generare traumi di vario genere e intensità. Sars-CoV-2 si diffonde con modalità improvvise ed impreviste, facendo manifestare sintomi e sindromi di tipo nuovo, ancora non del tutto chiarite, in forme talvolta anche gravi, gravissime o addirittura letali, oltre che con strascichi anche importanti dopo l’eventuale sopraggiunta guarigione (i.e. il cosiddetto Long-Covid). Tutte queste caratteristiche trasformano la vita quotidiana. Per le vittime (dirette e indirette: contagiabili, contagiati, malati, familiari, amici, medici, infermieri, operatori socio-sanitari, volontari, etc.) la vita può cambiare radicalmente: shock, trauma, ASD (Acute Stress Disorder) e PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder) imperversano.

Riprendendo le parole del professore di Psicologia Clinica e della Salute, Dott. Luciano Peirone, è inevitabile prendere atto che «una delle non poche “lezioni” che Sars-CoV-2 e Covid-19 stanno infliggendo all’umanità è proprio quella dello scoprire di avere dei limiti. Non esiste lo sviluppo infinitamente sostenibile: la Natura che si riprende i propri spazi durante il lockdown è sia un’importante informazione sia un umiliante atto d’accusa alla cosiddetta era “Antropocene”. Il senso di impotenza […] sembra essere, in definitiva, la cornice di fondo che racchiude i vari effetti del disagio psichico. Detto altrimenti, l’umanità è oggi prigioniera […] di una situazione imprevista e decisamente pericolosa. La metafora pugilistica risulta pienamente centrata: la pandemia in corso “ci ha messi nell’angolo”».52 Facendo inoltre focus sulla differenza di genere legata al concetto di trauma che la Covid-19 ha determinato sia in chi ne è stato colpito (vittime dirette) che in chi ha svolto il proprio ruolo di aito del prossimo (vittime indirette), il Dott. Peirone aggiunge: «il trauma è una questione complessa, spesso trascurato nelle sue componenti di paura, fobia, dolore, ansia, angoscia, pensieri ossessivi che si ripetono all’infinito, chiusura in sé stessi e isolamento nel proprio bozzolo in qualche modo protettivo, stati anche dissociativi per proteggersi, stress che diventa distress, bruciatura-fusione-confusione interiori chiamati burnout, che si manifestano maggiormente nel sesso femminile».52

Ad oggi, il COVID-19 rappresenta ancora un problema sanitario mondiale. Le evidenze sull’incidenza, la morbosità e la mortalità delle malattie documentano spesso una differenza di genere. La pandemia di Covid-19 ha ulteriormente mostrato come la malattia si esprima in modo differente nelle donne e negli uomini. Dagli studi clinici fino ad oggi condotti e presenti in letteratura, le principali ipotesi patogenetiche riconducono alla diffusa presenza di recettori virali tissutali regolati diversamente in funzione del genere e maggiormente espressi in alcune condizioni patologiche.

La ricerca congiunta a livello internazionale e la disponibilità di dati a livello globale ha permesso di monitorare l’occorrenza di Covid-19 e di esplorare gli effetti del genere su incidenza, severità e gravità.

I dati raccolti finora indicano che gli ormoni sessuali potrebbero essere fondamentali nello spiegare le differenze legate al sesso nella morbilità e mortalità da Covid-19, con una maggiore mortalità da infezione acuta a breve termine per la popolazione maschile rispetto a quella femminile.

Tuttavia, le variabili sono molteplici: i fenotipi normali, ipofunzionali o iperfunzionali potrebbero agire in modo diverso tra loro, il background genetico ed epigenetico gioca sicuramente un ruolo cruciale, gli ormoni sessuali steroidei non sono gli stessi e diverse molecole sintetiche e naturali interagiscono con i recettori steroidei. In fin dei conti, lo studio e la ricerca in ambito clinico e sociologico, volti rispettivamente ad approfondire differenze di sesso e, soprattutto, di genere, possono sicuramente rappresentare uno strumento finalizzato all’attivazione di programmi di intervento dedicati specificatamente alle popolazioni a maggiore rischio per la salute a causa degli effetti di questa nuova, destabilizzante epidemia.

Indagare le differenze di sesso e genere può far emergere meccanismi altrimenti ignorati e dovrebbe, quindi, essere la prima azione essenziale per una ricerca solida, riproducibile e socialmente rilevante.

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