Come la pandemia da COVID-19 sta cambiando
la stagione influenzale

Marco Bellizzi

Dirigente Farmacista, Ospedale di Sondrio ASST Valtellina ed Alto Lario

È noto come l’influenza abbia rappresentato e rappresenti tuttora, seppur in maniera marginale rispetto alla pandemia da COVID-19, un problema sanitario di grande rilievo. Da uno studio pubblicato sulla rivista International Journal of Infectious Diseases nel novembre del 2019, sono emersi dei dati preoccupanti relativi ai tassi di mortalità, correlati alle stagioni invernali, in costante crescita soprattutto nella popolazione ultrasessantacinquenne. Nella fattispecie, più di 68.000 morti registrate in Italia nel quadriennio 2013/14-2014/15-2015/1-2016/17 sono state attribuite alle epidemie influenzali in riferimento ai periodi considerati. La consistenza di tali dati è stata corroborata sia dall’elevata percentuale di soggetti anziani fragili presenti in Italia sia dalle scarse adesioni alle campagne vaccinali.1

La pandemia da SARS-CoV 2 ha ridotto in maniera considerevole il numero di casi influenzali a causa delle misure preventive messe in atto per contrastare il diffondersi dei contagi. I dati italiani (fonte InfluNet) riferiti alle ultime settimane del 2020 in aggiunta alla prima settimana del 2021, seppur estremamente sommari, mostrano una netta diminuzione dei casi segnalati di influenza rispetto alle settimane di riferimento degli anni precedenti (2018, 2019) (Figura 1).




Una revisione sistematica, pubblicata sul Journal of Infection, ha misurato l’impatto degli interventi non farmaceutici mirati alla prevenzione dei contagi da Coronavirus sull’influenza evidenziando che, a livello mondiale, partendo dall’analisi di molteplici report derivanti da 15 stati nel mondo e 8 nazioni europee, con i dovuti criteri di inclusione ed esclusione, i casi di influenza accertati sono stati di gran lunga inferiori rispetto agli anni precedenti, confermandone l’effettiva riduzione del carico.2

Un interessante articolo apparso su Nature, a firma di Nicola Jones, mette in luce i cambiamenti più rilevanti relativi alle sindromi influenzali e da raffreddamento registrate nel corso dell’inizio della stagione influenzale 2020/2021. Di seguito, i punti salienti.

‘HOW COVID-19 IS CHANGING THE COLD AND FLU SEASON’,
NATURE, VOL 588, 17 DECEMBER 2020

Generalmente, ogni anno, entro la metà di dicembre, nell’emisfero settentrionale la stagione influenzale si trova nel pieno del suo corso facendo registrare un consistente aumento dei casi di influenza e raffreddore. Quest’anno, invece, nonostante le infezioni da SARS-CoV 2 abbiano fatto registrare un esponenziale e preoccupante aumento dei casi, i numeri relativi alle più comuni influenze si mantengono estremamente bassi. La pandemia in atto, ad oggi, ha fatto registrare più di 67 milioni di contagi e 1,5 milioni di morti (dati in costante aumento). Le misure adottate per contenere la propagazione dei contagi - lockdown temporanei, riduzione degli spostamenti, distanziamento sociale, utilizzo di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) ed adeguate pratiche di igiene personale (lavaggio e frizionamento alcolico delle mani, etc.) - hanno impattato in maniera sorprendente sulle più comuni patologie respiratorie ad andamento stagionale. Nell’emisfero australe, dove l’inverno è già volto al termine, per esempio, l’influenza ha fatto registrare numeri risibili. Questo presuppone che ciò possa accadere anche nell’emisfero nord nonostante alcuni virus responsabili delle più comuni forme di raffreddore stiano prosperando e presentino, in alcuni casi, effetti ‘protettivi’ nei confronti del Coronavirus (SARS-CoV 2). Gli scienziati sperano che il contenimento delle stagioni influenzali dovuto alle misure anti-COVID-19 possa rivelare nuove e importanti informazioni riguardanti la trasmissione ed il comportamento dei virus stagionali ed il loro impatto sulle patologie croniche. Per Sonja Olsen, epidemiologa al National Center for Immunization and Respiratory Diseasesè un esperimento naturale che coinvolge molti virus respiratori”.

IL TRACOLLO DELL’INFLUENZA (INFLUENZA FIZZLE)

Al termine della prima grande ondata dei contagi della pandemia da COVID-19, nel maggio del 2020, è stato registrato un calo considerevole del picco influenzale nell’emisfero nord. Ciò è stato imputato in parte alle misure preventive messe in atto durante l’ondata pandemica ed in parte alla diminuzione dei soggetti valutati clinicamente accorsi nelle strutture ospedaliere o negli studi medici. In effetti, nei soli Stati Uniti, nonostante il numero dei campioni analizzati sia diminuito con una percentuale pari a circa il 61%, il numero di test risultati positivi per i virus dell’influenza è calato ancor più drasticamente (98%). La stagione influenzale negli USA è stata dunque classificata come ‘moderata’ dal Centers for Disease Control and Prevention ed ha contato circa 38 milioni di soggetti ammalati e 22.000 decessi.

Al termine della stagione influenzale al nord, il trend in netta diminuzione dei casi di sindromi influenzali si è verificato anche nell’emisfero sud nonostante le infezioni da SARS-CoV 2 registrate fossero in progressivo aumento. In paesi come Australia, Cile e Sud Africa, per citarne alcuni, sono stati registrati solo 51 casi di influenza su circa 83.000 test eseguiti. Questo è dipeso soprattutto dalle misure emergenziali preventive messe in atto per contrastare il Coronavirus, ma non è attribuibile esclusivamente a queste. “Alcuni paesi latino-americani non hanno compiuto un buon lavoro nel controllo della propagazione dei contagi da SARS-CoV 2 ma, nonostante ciò, hanno registrato un forte decremento dell’influenza” ha spiegato Richard Webby, virologo al St Jude Hospital di Memphis, Tennessee, affermando inoltre che “non credo che ciò possa esser attribuito solamente al distanziamento sociale ed all’utilizzo di mascherine protettive”. Il sospetto è che il drastico calo dei viaggi internazionali abbia svolto un ruolo fondamentale. L’influenza, infatti, viaggia letteralmente in tutto il globo da un inverno all’altro pur mantenendo sempre una incidenza più bassa ai tropici. Un altro fattore determinante sarebbe da imputare alle imponenti campagne vaccinali antinfluenzali. Per esempio, nella sola Australia sono state somministrate circa 7,3 milioni di dosi di vaccino antinfluenzale entro il maggio del 2020, rispetto alle 4,5 milioni di dosi del 2019 ed alle 3,5 milioni di dosi del 2018. Tuttavia, non è del tutto chiaro se questo trend potrà confermarsi anche nell’emisfero nord per via di molteplici fattori imputabili alla pandemia stessa ed anche allo scenario politico odierno (elezioni presidenziali USA).

INCOGNITE VIRALI (VIRAL UNKNOWNS)

Molti esperti sono cauti nello scommettere che la stagione influenzale 2020/2021 possa essere più mite nell’emisfero nord. Ciò rappresenterebbe di certo una buona notizia in quanto allevierebbe il potenziale carico apportato dall’influenza sui Sistemi Sanitari Nazionali che andrebbe a sommarsi a quello della pandemia già in atto. Ciò non toglie che potrebbero esserci delle sorprese. Per rendere meglio l’idea, nessuno è riuscito ancora a spiegare perché una nazione come l’Australia ogni anno sia colpita da consistenti picchi influenzali stagionali mentre la vicina Nuova Zelanda presenti, in proporzione, tassi di influenza molto più bassi. Inoltre, non è del tutto chiaro il meccanismo che regola la stagionalità e il modo di spostarsi dell’influenza. “Non sappiamo bene perché sia una malattia invernale”, dice Webby. “Spiegare in maniera chiara i dati di quest’anno sarà difficile ma stimolante”, aggiunge Olsen, “perché le politiche attuate dai diversi paesi per contrastare la pandemia sono diverse e si differenziano non solo tra nazioni ma anche a livello regionale, provinciale e locale”. Questo potrebbe comportare delle conseguenze. Se la stagione influenzale dovesse esaurirsi nel solo emisfero settentrionale, senza toccare più di tanto quello meridionale nella seconda metà del 2021, lo studio preventivo dei ceppi virali necessario per poter sviluppare il vaccino nel 2021 diventerebbe più difficoltoso. “A lungo andare”, ipotizza Webby, “tale situazione potrebbe sopprimere varianti meno comuni dei ceppi influenzali e rendere il quadro virologico molto più semplice per un periodo di tempo potenzialmente permanente”. “Allo stesso modo”, aggiunge Webby, “la mancanza di una vera e propria ‘concorrenza virale’ negli umani potrebbe favorire lo sviluppo di nuove varianti di influenza suina. Uno dei fattori che limita molto questa tipologia di virus è proprio l’immunità naturale; per tale ragione, una mancanza di immunizzazione protratta nel corso di differenti stagioni potrebbe ‘lasciar spazio’ a virus suini e favorirne un maggiore impatto infettivo”.

IN CONTROTENDENZA (BUCKING THE TREND)

Le misure preventive per il contenimento di SARS-CoV 2 hanno impattato anche su altre tipologie di virus oltre a quello influenzale, che vanno dal parainfluenzale al Metapneumovirus. Nella fattispecie, è stata evidenziata una drastica riduzione dell’incidenza di virus respiratorio sinciziale (RSV) che rappresenta uno dei principali agenti patogeni delle vie respiratorie in neonati e bambini e che, a volte, può portare allo sviluppo di gravi complicanze come la polmonite. Ad oggi, non esiste un vaccino contro RSV e la letalità copre il 5% dei decessi nei bambini sotto i cinque anni di età in tutto il mondo.

I dati del New South Wales (Australia) mostrano una netta diminuzione dei casi di influenza nel 2020 rispetto agli anni precedenti. Anche i dati relativi al RSV mostrano una insolita diminuzione seguita da un rapido picco ad ottobre 2020. I rilevamenti di infezioni da Rhinovirus, invece, mostrano dei picchi considerevoli rispetto agli anni precedenti; ciò potrebbe essere dovuto a un aumento dei test effettuati.

Nella sola Australia occidentale, per esempio, l’infezione da RSV nei bambini è diminuita del 98% e l’influenza del 99,4%, nonostante le scuole siano rimaste aperte (dati riferiti alla stagione invernale 2020). La tregua del RSV potrebbe esser solo temporanea come si evince dai dati rilevati in una delle regioni più popolose dell’Australia, il New South Wales (NSW), che mostrano un picco di infezione da RSV nel mese di ottobre probabilmente dovuto ad un accumulo di soggetti potenzialmente suscettibili al virus nei mesi precedenti al picco (Figura 2).




Esiste una eccezione alla riduzione dei contagi da virus respiratori che riguarda il Rhinovirus. “I Rhinovirus sono la principale causa del comune raffreddore soprattutto nei bambini”, afferma Janet Englund, ricercatrice presso il reparto di malattie infettive pediatriche del Seattle Children’s Hospital di Washington, “ne esistono centinaia di ceppi e dozzine di questi sono regolarmente in circolo”. In uno studio condotto a Southampton (UK), è stata evidenziata una diminuzione nel rilevamento di Rhinovirus in pazienti ospedalizzati durante l’estate del 2020 rispetto a quella del 2019 che ha tuttavia invertito il trend alla riapertura delle scuole avvenuta nel mese di settembre (Figura 3).




Allo stesso modo, dai dati del NSW si evince un aumento dell’incidenza del Rhinovirus superato l’inverno nell’emisfero meridionale. Sebbene l’incremento dell’incidenza dell’infezione da Rhinovirus sia dovuto in parte al maggior numero di test effettuati anche su soggetti con blandi sintomi da raffreddamento, questa tipologia di virus non ha affatto mostrato una diminuzione complessiva dell’incidenza e ciò è difficile da spiegare. Diversi virus, seppur responsabili di sintomi molto simili al raffreddore, presentano differenze sostanziali nella loro struttura; in particolare, i Rhinovirus, a differenza dei virus influenzali e dei Coronavirus in genere, sono privi del rivestimento esterno di natura lipidico-proteica (envelope) che risulta esser molto suscettibile ai più comuni detergenti e disinfettanti. A riprova di ciò, in NSW, il rilevamento degli adenovirus (privi di envelope), che sono associati a sintomi molti simili al raffreddore, ha mostrato un andamento piuttosto costante durante tutto l’inverno meridionale a differenza dei virus influenzali. Si ipotizza dunque che il Rhinovirus sia più stabile nel permanere sulle superfici (es. mani, scrivanie, banchi, maniglie) e ciò ne consente una maggiore trasmissibilità, sia per le forme sintomatiche sia per quelle asintomatiche, soprattutto nei bambini. L’unico lato positivo della questione è che il comune raffreddore potrebbe in qualche modo proteggere le persone verso l’infezione da SARS-CoV 2. Uno studio effettuato su un gruppo di oltre 800.000 persone ha infatti evidenziato che i soggetti colpiti da sintomi da raffreddore nell’anno precedente hanno mostrato una minore probabilità di risultare positivi al SARS-CoV 2 anche se se ne disconosce il reale motivo e l’effettiva correlazione.

PROTEZIONE CROCIATA (CROSS-PROTECTION)

Una spiegazione plausibile può esser ascrivibile ad una precedente infezione da Coronavirus di diversa variante (altra causa del più comune raffreddore) la quale potrebbe conferire una sorta di immunità verso SARS-CoV 2 nonostante sia risaputo che un soggetto possa contrarre la stessa tipologia di raffreddori da coronavirus più volte o, addirittura, da più virus simultaneamente. Le infezioni da forme differenti di Coronavirus portano molto probabilmente alla produzione di cellule T e cellule B che favoriscono la ‘memoria’ del sistema immunitario permettendo il riconoscimento di SARS-CoV 2 e fornendo una parziale protezione crociata. “Diversi studi hanno dimostrato che circa un quarto delle persone precedentemente infettate da altri ceppi di Coronavirus hanno sviluppato anticorpi capaci di legarsi al virus SARS-CoV 2”, afferma Scott Hensley, immunologo virale presso la University of Pennsylvania di Philadelphia. “Uno studio in particolare ha dimostrato che questi anticorpi possono effettivamente neutralizzare le infezioni da SARS-CoV 2, impedendo al virus penetrare nelle cellule”. Tuttavia, “gli effetti della cross-neutralizzazione” spiega Qiuwei Abdullah Pan della Erasmus University Medical Center di Rotterdam, “non sono stati ancora provati scientificamente e, anche se lo fossero, mi aspetterei un’attività neutralizzante moderata”.

Un altro meccanismo di cross-protezione proposto prende in considerazione la produzione di interferoni in risposta ai comuni raffreddori stagionali. Uno studio di Ware e colleghi, tanto per citarne uno, ha mostrato una riduzione di circa il 70% della probabilità di contrarre un’infezione da Coronavirus in soggetti con infezione da Rhinovirus in atto rispetto a soggetti che non presentano uno dei sintomi più comuni del raffreddore: il gocciolamento del naso. Un ulteriore studio, condotto dal microbiologo clinico Alberto Paniz Mondolfi della Icahn School of Medicine di New York, ha evidenziato una notevole riduzione delle co-infezioni da Rhinovirus in soggetti affetti da SARS-CoV 2. “Il Rhinovirus è un virus resistente”, afferma Paniz Mondolfi. “La sua rapida proliferazione impedisce ad altri virus di attecchire, e per questo motivo sembrerebbe più rapido di SARS-CoV 2”. Questa interferenza virale potrebbe rappresentare un potente effetto inibente.

Esistono prove riguardanti l’interferenza del Rhinovirus verso la pandemia influenzale H1N1 del 2009. Da uno studio effettuato da Ellen Foxman, immunologa della Yale School of Medicine di New Haven in Connecticut, è emerso che in un gruppo selezionato di soggetti adulti ospedalizzati sono state riscontrate un numero di co-infezioni più basse di quanto ci si aspettava. Inoltre, nelle colture cellulari, l’infezione da Rhinovirus è stata capace di arrestare il processo infettivo di uno specifico ceppo di H1N1. Tali risultati hanno incoraggiato il gruppo di lavoro a riprodurre lo studio verso pazienti affetti da Coronavirus. I risultati saranno pubblicati a breve. “È molto probabile che sia Rhinovirus che altri ceppi di Coronavirus possano contenere la diffusione di SARS- Cov 2”, prosegue Paniz Mondolfi, “e penso che molti miei colleghi (virologi, ndr) stiano osservando con molta attenzione l’evolversi di questa stagione per poter trarre delle più attendibili considerazioni”. Tuttavia, restano molti dubbi ancora da chiarire. Tra gli esperti c’è chi sostiene che la popolazione debba tenersi pronta ad affrontare scenari ben più gravi: “potremmo passare dal pericolo che importanti stagioni influenzali aggravino la pandemia da COVID-19 a preoccupanti esplosioni di focolai di RSV”, avverte Olsen, “perciò è meglio esser preparati, in quanto non sappiamo come evolverà la situazione.”*

*Per la bibliografia completa dell’articolo tradotto, si rimanda al testo originale.

BIBLIOGRAFIA

1. Rosano A, Bella A, Gesualdo F, Acampora A, Pezzotti P, Marchetti S, Ricciardi W, Rizzo C. Investigating the impact of influenza on excess mortality in all ages in Italy during recent seasons (2013/14-2016/17 seasons). Int J Infect Dis 2019 Nov; 88:127-34. doi: 10.1016/j.ijid.2019.08.003.

2. Fricke LM, Glöckner S, Dreier M, Lange B. Impact of non-pharmaceutical interventions targeted at COVID-19 pandemic on influenza burden–a systematic review. Journal of Infection 2020;16:20.