Mark C. Stuart. The complete guide to medical writing. Pharmaceutical Press, UK, 2007, 491 pagine, £ 50.00.

Rivolto principalmente alla comunità medico-scientifica, questo manuale-guida propone indicazioni semplici quanto essenziali a chi intende comporre un testo su argomenti di carattere clinico, accademico o più in generale su temi di divulgazione scientifica.
Il libro è a cura di Mark C. Stuart, farmacista clinico presso numerosi ospedali di Australia e Regno Unito, attualmente Clinical Editor per il BMJ Clinical Evidence (BMJ Publishing Group); si tratta di una raccolta di saggi realizzati da un gruppo multidisciplinare di figure professionali esperte nel settore dell’informazione e della letteratura medico-scientifica: medici, farmacisti, ricercatori, ma anche studenti, in gran parte attivi nel circuito dell’EMWA (European Medical Writers Association).
Nel primo capitolo John Kirkman, direttore della Communication Studies Unit presso l’Institute of Science and Technology di Cardiff, fornisce la chiave di lettura dell’intero libro, introducendo in modo appassionante il lettore a concetti cardine come quello di funzionalità della sintassi nella divulgazione scientifica o come quello di familiarità del lessico: per esempio, è suggestiva l’immagine che l’autore offre di scrittura come forma di codificazione delle informazioni e di lettura come processo inverso di decodificazione, quasi scrittore e lettore fossero legati fra loro da un flusso di byte. Maria Kouimtzi, ricercatrice e curatrice del British National Formulary presso la Royal Pharmaceutical Society of Great Britain, nel quarto capitolo delinea i tratti che un buon “research report” deve presentare, approfondendo tutti i punti della struttura di testo più utilizzata, la IMRAD (Introduction, Methods, Results and Discussion); mentre, in un’altra sezione del libro, Richard Clark, del Vitruvian Medical Writing di Oxford, rivela segreti e strategie per scrivere in modo efficace gli articoli destinati alle riviste di medicina (consigliato a chi da sempre sogna di pubblicare sul BMJ). Altri interessanti contributi sono quelli di Angela Bussey su come scrivere il foglietto illustrativo di un farmaco, di Steven Kayne sulle tesi di laurea e di Sue Childs sul “web writing”.
Il messaggio degli autori è immediato: i “medical writers” hanno il dovere, a prescindere dalla complessità dell’argomento trattato, di adottare uno stile di scrittura diretto e accessibile, pur mantenendo inalterato il volume di informazioni da comunicare al lettore.
La guida passa in rassegna le varie forme di letteratura medico-scientifica suggerendo, per ciascuna di esse, criteri e metodi utili a evitare le più comuni trappole sintattiche e lessicali in cui si può cadere nella composizione di un testo. Inoltre, viene sempre sottolineata la centralità dell’interlocutore: in qualsiasi tipo di divulgazione scientifica la prima regola è chiedersi a chi ci si sta rivolgendo e, una volta chiarito questo punto, calibrare la scrittura nel modo più adeguato.
Il manuale punta all’approccio visivo, evidenziando, attraverso riquadri colorati, frasi o schemi capaci di riassumere il contenuto delle pagine, in modo da permettere al lettore una rapida consultazione del testo. Questo è, d’altronde, un libro concepito per essere sfogliato “al momento del bisogno”, piuttosto che per essere letto tutto insieme.
Forse il maggior pregio di questa guida sta nella quantità e qualità degli esempi riportati, che si distinguono non solo perché immediati e ironici, ma soprattutto perché facilmente estendibili dall’inglese ad altre strutture linguistiche (italiano, francese, spagnolo etc.).
Diretto, efficace, senza fronzoli, lo stile di scrittura degli autori rispecchia il messaggio di fondo del manuale: mettere da parte ogni velleità artistico-letteraria, evitare architetture linguistiche complesse, sposando il punto di vista del lettore all’insegna di un “friendly approach” capace di rendere facile e immediata la divulgazione medico-scientifica.
Questo libro è un progetto ambizioso: si pone come guida completa e dettagliata a ogni tipo di letteratura scientifica, dallo slogan per la pubblicizzazione di un farmaco al tomo di neuropschiatria infantile, cercando di affrontare il problema della stesura di un testo da ogni possibile angolazione. In gran parte gli autori sono riusciti nel loro obiettivo. Questo manuale è davvero uno strumento utile sia per coloro che si avvicinano per la prima volta alla pubblicazione scientifica, sia per gli scrittori più navigati ed esperti, perché in un mondo come quello medico-scientifico, in cui le conoscenze mutano rapidamente, anche le tecniche di divulgazione necessitano di un aggiornamento continuo.

Arrigo Paciello
Dipartimento del Farmaco USL11, Empoli



Allan V. Horwitz, Jerome C. Wakefield. The loss of sadness: how psychiatry transformed normal sorrow into depressive disorder. Oxford University Press, USA, 2007, 272 pagine,  29,74.

La perdita della tristezza: come la psichiatria ha trasformato il normale dolore in depressione. “Non sono depresso, sono malinconico.” E qui, si recuperano elementi classici del dibattito sugli psicofarmaci come silenziatori-sintomatici. In questo testo, che è una critica della moderna psichiatria, Allan V. Horwitz esamina il concetto di come le alterazioni del tono dell’umore spesso siano considerate malattie, e dedica una particolare attenzione all’utilizzo di farmaci in queste situazioni. E, allora, si torna ancora una volta al concetto di Farmacologia Sociale, coniato da Montastruc per descrivere i rapporti che intercorrono tra farmaci e ambiente circostante (Montastruc JL et al.: “Medicamentation” of society, non-diseases and non-medications: a point of view from social pharmacology. Eur J Clin Pharmacol 2005; 61: 309-13).
Il volume è opera di due famosi sociologi, Allan Horwitz e Jerome Wakefield. Robert Spitzer, professore di psichiatria del New York State Psychiatric Institute, definito dal “New Yorker” come uno dei più influenti psichiatri del XX secolo, afferma che il testo forse provocherà una piccola rivoluzione culturale. Segna anche una svolta il fatto che un importante psichiatra come Robert Spitzer sostenga appassionatamente le teorie di Horwitz e Wakefield, ammettendo di avere sbagliato in passato nel non avere tenuto conto del contesto in cui si manifesta la cosiddetta depressione. 
Spitzer parla del fenomeno contemporaneo della perdita della tristezza, uno stato psicologico che invece è presente in tutte le epoche del passato e in tutte le culture. Spitzer sottolinea come i bambini nascano con la capacità di piangere e che perfino gli scimpanzé sono tristi quando la vita non gira nel verso giusto e dichiara che il dolore fa parte dell’esperienza emotiva umana. Dylan Evans, uno psichiatra evoluzionista, autore di Emotion: the science of sentiment, afferma che la capacità di sentirsi tristi, come di sentirsi felici, è una proprietà degli esseri umani, un elemento fondamentale del patrimonio emotivo umano, tanto che le persone nate cieche sorridono o hanno smorfie di dolore uguali a quelle che hanno sempre visto.
Gli psichiatri del ’900 avrebbero dunque sbagliato enormemente classificando come malattia la normale sofferenza e continuare a prescrivere antidepressivi può comportare problemi perché le persone perdono inibizioni e cautele, diventano insensibili al dolore e possono commettere atti che li portano a gravi danni a se stessi e agli altri. I due studiosi sostengono che se questi sintomi si riscontrano in persone che sono giù per motivi validi, come la fine di una relazione o la perdita del lavoro, non possono essere classificati come malattia. Diversamente, se questi segni di malessere si trovano in persone tristi senza l’esistenza di motivi reali per la loro tristezza, devono andare dallo psichiatra.
La depressione è diventata il disordine mentale più trattato, e si pensa che circa un Americano su dieci per anno soffra di questo problema. La sensazione che la depressione sia una causa di disabilità è diffusa in tutti i Paesi e ha portato a un aumento crescente del consumo di antidepressivi, a screening per la depressione sia negli ospedali che nelle scuole, e infine ha spinto verso diagnosi precoci di depressione, ma tutto ciò sulle basi di pochi o scarsi sintomi, con lo scopo di prevenire lo svilupparsi di situazioni di peggioramento.
Ma quali sono le dimensioni del problema? L’anno scorso in Inghilterra i medici hanno prescritto 31 milioni di ricette per antidepressivi, un numero mai raggiunto prima. Anche in Italia è sempre più seguita la terapia farmacologica: a dimostrarlo è l’aumento delle prescrizioni degli antidepressivi. Negli ultimi sette anni, dal ’99 al 2006, il numero delle persone a cui vengono somministrati si è quasi triplicato. Le scoperte scientifiche dell’ultimo decennio hanno permesso di sviluppare nuove categorie di farmaci, molto più specifiche e con effetti collaterali inferiori.
Demonizzati per anni, oggi gli antidepressivi sembrano non fare più così paura; infatti, in Italia, su 568.000 minori con un’età compresa da 0 a 17 anni, il 2,4% dei maschi e il 3,25% delle femmine assumono antidepressivi. Tra gli adolescenti, cioè i ragazzi con un’età dai 14 ai 17 anni, prendono questo tipo di farmaci circa il 6% dei maschi e più del 10% delle femmine.
Bene, il problema è importante e investe talmente tanti settori, dal sanitario al sociale, che non c’è altro da aggiungere: è un libro sicuramente da leggere. Consigliato a tutti.

Roberto Banfi
Dipartimento del Farmaco USL11, Empoli